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Rino Negrogno

Controra

 

Sinossi

 

Ho scritto la mia prima poesia nel 1978, per una manifestazione culturale organizzata dalla parrocchia San Giuseppe di Trani, in occasione della festa della mamma. Avevo 10 anni e, da allora, anche grazie all’incoraggiamento della mia maestra, non ho più smesso. In questa raccolta ne ho selezionate 200, scritte tra il 1986 e il 2016, un periodo alquanto ampio, infatti è evidente uno stile notevolmente disomogeneo tra i vari testi. Ho ritenuto di inserirle a caso, senza seguire un ordine temporale e senza raggrupparle per argomenti, come quando le scrivo, senza alcun criterio. Le mie poesie sono state pubblicate anche nell’opera “Poesia moderna e contemporanea – Parnaso Europeo” edito nel 2010, nella raccolta “Viaggi di versi – Nuovi poeti contemporanei” edita nel 2013, nell’antologia “Visioni poetiche” edita nel 2013. Nella prefazione di “Visioni poetiche” Plinio Perilli, sulla poesia “Che pace” scrive: “Ogni intellettualismo è vinto, annullato in partenza, irriso come blando, sterile artificio come costrutto”. Controra, dalle mie parti, nell'Italia meridionale, è l’ora del riposo, della pennichella; è un periodo, non ben definito, compreso all’incirca tra mezzogiorno e le sedici, d’estate è il periodo più caldo della giornata e la consuetudine impone di rifugiarsi in casa al fresco per riposarsi. Per mia madre non è opportuno aggirarsi per le vie della città alla controra. Quando ero poco più che adolescente, diceva che questa è l’ora degli “zannieri”. Non ho mai saputo chi fossero e non ho mai ascoltato mia madre. Girovagavo sempre al meriggio, le ore migliori, silenziose, mentre tutti reiterano la loro devozione alla pennichella, tranne gli “zannieri” che devono essere silenziosi e riflessivi perché non mi pare di averne mai incontrato o sentiti. Presumibilmente si mimetizzavano tra quelli come me, erano miei compagni di piazza e, senz’altro, io stesso ero uno “zanniere” per le madri dei miei imperterriti accompagnatori, ma preferivo, quando ero giovane, non riposare perché ritenevo quel tempo, tempo sprecato invano.

 

 

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Letture

 

 

Ritratto di Francesco Porcelli

 

Video lettura - Che pace - Fabio de Palma

 

 

Che pace

Possiamo evitare, oggi, le nostre effimere effemeridi,

guardarci di sottecchi e fare slanci subitanei,

passi veloci, groppi dondolanti, finestre sbieche,

ficcare la testa nelle nostre nuvole, anzi,

nel nostro mondo silenzioso di suoni:

rosso, verde, giallo, luminoso di parole.

Ah che pace! Non vuoi venirci?

Mano nella mano, potremmo trovarci qui,

se non in questa vita, in molte altre.

Mano nella mano e sfiorare i tuoi rimpianti,

i miei andirivieni di viottoli senza fine,

ma tu non puoi venirci e lo sai, hai la faccia.

Dovrei uscirne io, ma vedi, vedi, che dire:

seguo una scia che non è qui e so che sei tu,

riconosco i sogni che mi hai insegnato,

i tuoi disegni di paesaggi escogitati,

sempre gli stessi, per strade e rifugi sicuri,

non sentieri, solcare onde impetuose,

piogge odorose di terra e libri da rileggere.

Voglio restare vicino al fuoco,

ci verrò di tanto in tanto ad ammaestrare il vento,

voglio gustarmi le sembianze baluginanti,

vederti brillare come fanno gli amanti.

Ora no, ora no.

 

 

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Video lettura - I vicoli del porto - Donato de Ceglie

 

 

I vicoli del porto

I vicoli del porto, bagnati di sole,

sempre prima o nel giorno della festa,

finestre aperte e drappi danzanti,

volano profumi di muschio e vino,

olio e ragù, tra le parole straniere di ora,

le bluse, dimenate al vento, tra le case,

ancora unte di lavoro trovato per caso,

fugge, dalle bifore diroccate,

la musica fastidiosa di amori mai visti,

sul basamento levigato, la sedia del contadino

con la maggiorana e le olive nere,

davanti all’unica stanza attorno al desco,

eserciti di bambini lasciati soli

ai loro giochi antichi, aridi di colori,

tra gli occhi assorti delle madri

con le loro vesti nere di abitudini

e gli usi tramandati tra le dita,

bellezza dei giorni finiti,

appesa all’ombra dei loro uomini forti,

al margine del bene, tra Dio e le bestemmie,

ghigno di rughe bruciate

da mille giorni di sole e un vino granato,

prima di pretendere il loro amore

e di morire nel padre e nella madre,

quadri trafitti sulla parete, benevoli.

 

Menzione Speciale Premio Nazionale Giovanni Bovio 2017

 

 

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L’airone

I tuoi occhi ho visto, nient’altro,

anche se eravamo due aironi

che oltrepassavano la riva,

il tuo sguardo ho afferrato,

che tutti ghermivano per un secondo,

niente di più.

Se l’avessi, ti darei quello che meriti

e passeresti il resto del tuo tempo

ad ammirare quello che hai,

niente di meno.

 

 

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Il bambino morto sulla sabbia

Eccoti tra le mie braccia bambino

che sei annegato nel mondo,

sei tra le mie braccia ora,

contro gli sguardi sgretolati,

finalmente, ce ne guarderemo bene

di scovare alte parole e virgole

senza capire bene la rimanenza

tra le onde impetuose del mare

e la guerra sotto i tuoi cieli foschi.

Cosa vuoi dirmi bambino? Ti ascolto:

cosa sia la tua morte a faccia in giù?

Cos’erano quei proiettili sibilanti

da dove tuo padre fuggiva senza voltarsi?

Fruscii rinsecchiti contro le pareti,

anfratti di fame e paure di pietra,

non riesco a guardarti negli occhi

come quando ti addormenti la sera

e la testolina crolla sulla mia spalla,

rocca sicura tra i lupi e le streghe,

non riesco, maledizione, a sentirti,

a sapere cosa pensi del silenzio

che domani, come fa la sabbia,

mulinando tra stelle e castelli,

cancellerà la pesta increspata

e le nostre inadeguate sentenze,

ma resta ancora tra le mie braccia,

resta finché puoi, sogna pure,

resta finché non saresti morto

di morte naturale tra i tuoi figli,

ti asciugherò, ti porterò con me

tra i semafori e le vetrine lucidate,

tra le donne violentate dal sole

e dalla terra seminata dal sudore,

ti terrò incurante stretto al mio petto,

tra i moribondi accuditi nelle case

e quelli abbandonati negli ospizi,

tra le mie paure per mio figlio,

che sono state quelle di tuo padre.

Eccolo tuo padre che fuggiva

per regalarti una sola speranza,

eccolo tuo padre.

 

Per Aylan

 

 

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Settembre

A settembre si ritrova

l’odore di pioggia e di libri,

ormai rinsecchiti meriggi,

la rugiada, non ancora brina,

barbaglia refoli di sole,

a settembre ci sorprende

un crepuscolo indifferente,

oltrepassa riflessi d’asfalto

mentre noi, feriti d’estate,

distanti, pensiamo ad altro.

 

A settembre si va via,

gli armadi colorati e le finestre,

ormai bigi di bruma e memoria,

il mare non ancora verno

dondola barche di pescatori,

a settembre ci sorprendono

amori d’infinite ragioni,

lontananze che si misurano

mentre noi, siderali di luna,

vicini, pensiamo ad altro.

 

 

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Rientro

Guarda i treni che fuggono scialbi sui binari,

svaniscono gli sguardi baluginanti dei viandanti

così come s’è dissolto a tarda sera il nostro gioco,

chissà quante altre volte dissemineremo la stanza

di soldatini verdi, blu e indiani poveri senz’armi,

prima di contrattare immusoniti l’ora del rientro

e barattare le mie cento paure per le tue mille brame.

 

Vivrò i miei giorni solo come potrò raccontarteli

così potrai disegnarli coi tuoi colori chiassosi,

penserò con la tua voce avida di nuove parole,

chissà se da grande perdonerai le soluzioni simulate,

la tua gelosia per i feriti, che morissero, io sono tuo,

la sventura degli amori che non resistono ai giorni

e quanti anni avrò quando tu ne avrai settantatré.

 

Guarda quelle madri e quei padri nudi senza terra,

sono silenziosi pur avendo tenaglie strette allo stomaco

così come dissolte ormai sono le loro radici sradicate,

chissà quante sono le loro paure e la loro fame,

di soldati in carne e ossa e bambini poveri senza sogni,

loro hanno barattato i naufragi con gli avvoltoi e le carogne,

nasconderò le mie cento paure per le tue mille brame.

 

Per Luchino

 

 

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Gli ombrellai

Piove, spuntano gli ombrellai senza sole

ai crocevia, riso e occhi di limacce spaesate,

armille di granelli tra le onde e la sabbia,

zuppe le coperte di cartone dei vagabondi,

bestemmiano gli stessi santi per i tetti d’ombra

e i mendicanti sotto i portici di sprazzi fulvi,

guazzano cappelli di monete colorate di rame,

abbracciati, sotto gli ombrelli, le grinze aride,

il bottegaio sa quanti giorni passano ad aspettare,

l’acquerugiola diventa cristalli di ricordi prepotenti,

così tu quando pioverà, perché pioverà anche domani,

sarai ancora mano nella mano, fiotti salti di danze,

ecco, non piove, le nuvole ridiventano cielo e arcobaleno,

gli ombrellai strizzano angoli distanti a scomparsa,

tornano invisibili occhi senza fame e senza sete,

rivoli di lontananza, scrosciando sul ciglio frusto,

guarda anche tu, per noi e per loro, quando pioverà.

 

 

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