IL MIRACOLO
   
   
Il miracolo
   
IL MIRACOLO (2018)
Matteo è alle prese con la difficile gestione del divorzio con Francesca ed è tormentato dai sensi di colpa derivanti dal rapporto intermittente con suo figlio Mattia. Sente la nostalgia della quotidianità perduta, le lotte sul lettone con il figlio, che erano un pretesto per abbracciarlo. È tormentato da ossessive reminiscenze provenienti dal passato che a volte si trasformano in vere e proprie visioni; si ritrova a pensare a quando era bambino, ai suoi genitori che non si sono mai separati, ma soltanto per un atavico senso del dovere; non vi era amore tra suo padre e sua madre, sono rimasti insieme soltanto per rispettare le regole e per il timore di essere giudicati. Si chiede cosa sia più giusto, per non far soffrire i figli, tra una separazione e un rapporto tenuto in piedi senza amore. La sua quotidianità è scandita, oltre che dal suo lavoro, dagli appuntamenti con lo psicanalista e l’avvocato, ma si reca a questi appuntamenti senza convinzione e ritiene che i professionisti non possano aiutarlo; finisce per scorgere in loro, problemi ben più gravi, e ritiene quindi che non possano risolvere i suoi. Resta contrariato quando l’avvocato gli mostra dei calcoli per ridurre l’assegno di mantenimento per suo figlio, come anche quando lo psicanalista cerca di fargli recuperare la fiducia in sé stesso. Anche diversi suoi amici sono separati e gli raccontano le loro storie, dove spesso i figli vengono utilizzati per colpire l'ex coniuge, situazione che lui non accetta e non riesce a concepire. Altre volte sono gli stessi figli a vendicarsi per i torti subiti dai genitori separati. Una di queste è Chiara, quattordicenne che lo seduce soltanto per vendicarsi contro il genere maschile. La situazione precipita quando per caso scopre di avere una malattia incurabile. Ateo, tra esami, prelievi ematici e radiografie, si rivolge inaspettatamente al curato della parrocchia del suo quartiere, ma anche lui si rivela presto incapace di aiutarlo preso dai suoi turbamenti e dai suoi dubbi. Infatti l’unico consiglio che riesce a dargli è quello di rivolgersi al santo venerato nella parrocchia, San Ciro, protettore degli ammalati. Matteo pur titubante, ma disperato, si lascia convincere e, accompagnato da don Peppino, chiede al santo di intercedere presso Dio per concedergli un miracolo. Gli sarà concesso il miracolo?
   
LETTURE
   
   
Juan Martín Guevara – Buenos Aires
Juan Martín Guevara – Buenos Aires
Audiolettura: Introduzione
   
INTRODUZIONE
Adoro il profumo che emanano i mattini di dicembre, di mandarini e finocchi, la bruma rappresa in galaverna sul parabrezza, i colombi si aggirano infreddoliti e affamati, benché i maschi non disdegnerebbero un fugace accoppiamento. I palazzi sbuffano tra i tiranti delle antenne smilze e le finestre sono occhi sgranati, gialli e arancioni fin dal meriggio; il mio cane ballonzola alla ricerca di un filo d’erba, tenta ripetutamente di scrollarsi il freddo tanto da perdere l’equilibrio. Il mio nome è Matteo, preziosa eredità in memoria di mio nonno; si sedeva troneggiante a capotavola sin dal mattino, estraeva il tabacco dalle sigarette di un intero pacchetto di Nazionali, lo sminuzzava e lo mescolava con quello sfuso di una confezione, con la mistura ottenuta rollava quaranta nuove sigarette che sarebbero durate fino alla sera. Non l’ho conosciuto, è morto nel cinquantasei; io non dovrei, c’è già troppa foschia, ma in genere fumo sia per ossequiare la mia serenità sia quando mi pervade l’inquietudine, infatti da qualche giorno ho una strana sensazione di affaticamento, un dolore ai polpacci simile a dei crampi e poi, quest’eritema fastidioso all’avambraccio sinistro che mi prude senza darmi tregua. Dovrei recarmi dal dottor Mauro Demico, il mio medico di famiglia, da un anno è il sindaco della mia città, dovrei farmi visitare o, forse, sarebbe opportuno ignorare questi segnali inquietanti, vivere quel che mi viene concesso gratuitamente senza pormi troppi interrogativi. Non c’è atto di violenza più atroce oltre quello di doversi denudare di fronte a un tuo simile senza che egli si ponga parimenti e, se due individui, contemporaneamente si privano delle vesti, le intenzioni dovrebbero essere favorevoli per entrambi quand’anche il tragitto per giungere a una conclusione così azzardata potrebbe essere differente. Svestirsi dinnanzi a uno sconosciuto, raramente affabile, non sempre del tutto consapevole e con l’immancabile padronanza cui si fregia tra i ghirigori della pergamena in bella mostra alle sue spalle, lasciarsi palpare l’addome globoso dalle mani morbide e dover trattenere lo spasmo infantile provocato dal solletico, sopportare il gelido fluttuare della membrana dello stetoscopio che gli rivela i refoli più reconditi mentre scruta il vuoto della sua perplessità; tutto questo è di una violenza inaudita, oltre a essere incomprensibile, ingiustificato. Non comprendo come possa esserci tutta questa gente in coda, in attesa di essere visitata, hanno i volti sommessi, alcuni parlottano tra di loro del più e del meno come se non fossero per nulla impensieriti da quel che gli aspetta, non sono coinvolti dai loro mali come invece dovrebbero. Quei due energumeni, incomprensibilmente, altercano con impeto su chi debba entrare prima per farsi visitare, come se dietro l’arcana porta vi fosse una sinuosa fanciulla ad attenderli smaniosa; nei loro panni cederei volentieri il mio turno, anzi: «gentili signori, visto che ci siamo e prima che vi alteriate invano, vi invito fin d’ora a entrare prima di me; la prego signora, lei avrà certamente di meglio da fare piuttosto che starsene in questa lugubre sala d’attesa a sfogliare quotidiani che manipolano realtà approssimative, sono certo che la attendano improcrastinabili faccende domestiche, la prego, senza indugio, si accomodi, le cedo volentieri il mio turno, non ho alcuna fretta, quest’oggi non ho nulla di significativo da svolgere». Mi osservano sbigottiti, come se fossi io ad avere atteggiamenti inusitati e non loro che non desiderano altro, ogni volta che entra un nuovo mutuato, oltre a domandarsi chi sia l’ultimo arrivato e, una volta appurato chi sia, con l’aria cortese, ripetono: «vorrà dire che il mio turno viene dopo il suo».
   
Rino Negrogno
Rino Negrogno
Audiolettura: Le separazioni
   
LE SEPARAZIONI
I miei, invece, non si sono separati, tranne che in morte di mio padre, si sono trascinati tra giorni di silenzio e urla funeste, costernati tra i raggi smezzati dalle sbarre e provenienti della finestra, che sbiechi radevano la caffettiera mattiniera di mia madre invecchiante tra decisioni mai prese. Era l’educazione ricevuta dai preti e i dai padri che imponeva di restare, non era amore per i figli, era quel che si sarebbe potuto dire nel vicinato. Era una delle frasi più pronunciate da mia nonna: «cosa diranno di noi gli altri?», l’anatema intercalava magnanimo, monito quotidiano, santo protettore delle famiglie affittuarie ed era quantunque più infausto di un’infermità. Senza considerare il fattore economico, la casa in affitto, appunto, e le rate dell’automobile benedetta e annaffiata con una bottiglia di spumante, versata per buon auspicio sulle quattro ruote. Ma ogni giorno vi era una separazione, a volte in una parola, altre in uno sguardo, in una mancanza, un’illusione. Le separazioni possono essere definitive come quelle degli arditi o possono essere il risultato di una somma d’infinite separazioni, di scelte da codardi. Quali benefici potranno trarre i figli dei genitori coraggiosi che pongono fine a tutto? E quali, i figli delle separazioni a rate, che rosicchieranno radi giorni di bonaccia, guardandosi le spalle da un arcobaleno e un temporale minaccioso? Io sono figlio di una separazione a rate con la sensazione incrollabile del debito inestinto, una delle tante coppie che durano finché morte non li separi e che agli occhi serafici delle comari, gli sciagurati, accedono meritatamente al paradiso e l’aldilà, tutto sommato, sono loro stesse con i ventri gonfi di rosari, sedute sui balconi, con lo sguardo severo e le faretre traboccanti, avvezze a scovare ogni debolezza palesata incautamente. Loro sono comunque sopravvissute, senza accenni di dolore, né di gloria, tranne il dovuto scranno, quel volto solcato da rughe competenti e un’espressione benaltrista.
   
Libri nel Borgo Antico
Libri nel Borgo Antico
Audiolettura: Lo psicanalista
   
LO PSICANALISTA
Mi domando come reagirà Mattia alla nostra separazione, intendo dire, come reagirà quando sarà un uomo. Quest’oggi ne parlerò con il dottor Vittorio Isilana, il mio psicanalista, lo incontro saltuariamente, più per un’ambizione di potere che per un bisogno di cure. Capita raramente di incontrare qualcuno che ti ascolti con dedizione o, comunque, ti dia questa impressione dall’inizio alla fine del discorso, anche quando le digressioni s’infittiscono come ragnatele da cui, se non con una prontezza di riflessi tipica degli analisti, diviene arduo venirne fuori. Lo studio del dottor Isilana è sobrio, autunnale, con tre quadri surrealisti oltre all’immancabile pergamena, una libreria bianca con dei libri disposti alla rinfusa, hanno l’aspetto di essere stati letti, una scrivania rovere contenente un lucido portapenne nero che traccia pentacoli spettrali alla base e un taccuino. Sul pavimento a rombo vi è un ampio tappeto Kashan dove si fronteggiano due comode poltrone blu oltremare. Al contrario del suo collega dottor Demico, il mio medico curante, egli, mi domando se sia una scelta casuale, ha realmente, in bella mostra, sulla parete a sinistra della scrivania, un dipinto di Magritte: “Gli amanti”. I due si baciano con i volti coperti da un sudario bianco che impedisce di guardarsi e di parlarsi, davanti a un cielo nemboso che oscura questo loro amore già asfittico. «Solo non comunicando possono continuare ad amarsi, caro dottore, lei cosa ne pensa? – domando senza attendere una risposta – ritengo che se i due personaggi del dipinto dovessero improvvisamente scoprirsi e raccontarsi reciprocamente le questioni con cui sono quotidianamente alle prese, le incombenze distoglierebbero quella passione mortale; ora quel quadro avrebbe un cielo terso che si schiuderebbe dietro la colonna». Gli basta questa mia considerazione per riempire con entusiasmo due pagine del suo taccuino. Mi scruta, si volta verso il quadro arando la sua barba con la penna, ma i due, senza darci peso, continuano a baciarsi, solo il cielo sembra più fosco, poi riprende a tracciare i suoi geroglifici. «Il divorzio è un’esperienza dolorosa, mio caro signore, devastante, non molto diversa dalla morte di un nostro caro – sentenzia il dottor Isilana, mentre con il pollice sfoglia velocemente il suo taccuino come in un mescolio di carte da gioco – accettare l’abbandono della persona che si ama richiede tempo, è un processo psicologico complesso di elaborazione della perdita, simile a quello che avviene, giustappunto, per la morte di una persona cara; l’evento ha logorato profondamente la sua autostima, la fiducia nell’amore e nel futuro…». Detesto quando mi vien detto quel che già sospetto ma preferisco ignorare per una quiete instabile, faticosamente raggiunta. «Solitamente – affermo stizzito – quelli indiscutibilmente probi come lei, pervasi da una tipica e ostentata sicumera, ben architettata grazie a studi accademici, la pensano in un certo modo così esclusivo e inconfutabile, solo fintanto che non gli succede d’imbattersi personalmente nella questione o, comunque, fino allo scadere del giorno; non s’inquieti ora – continuo temperando la voce – solo perché le ho rivelato di conoscere i trucchi del mestiere, lei, evidentemente, quando passeggia per il paese, predilige i vicoli principali, so mantenere il segreto, per quanto la verità potrebbe rivelarsi più interessante ed esortarla a studiare, persuaso da una nuova visione della realtà; non insista – esclamo – nel sollevare l’angolo del taccuino e nel lasciar cadere velocemente le pagine come si fa con quei disegni animati per sorprendere i bambini, il suono che produce mi distrae, come accade al giocatore di carte quando è certo di non poter battere l’avversario se non bleffando o per un’improvvisa virata della fortuna; non ci faccia caso – proseguo moderando di nuovo il tono – e mi perdoni, mio caro dottore, le renderò nota una riflessione che mi balenava stamattina; riguarda gli abbracci che, con il pretesto dei combattimenti, scambiavo con mio figlio prima della separazione».
   
Rino Negrogno
Rino Negrogno
Audiolettura: L'avvocato
   
L'AVVOCATO
Stamattina ho appuntamento con il mio avvocato, Giovanni Sforene, per certe questioni riguardanti il congruo mantenimento da erogare per mio figlio. Il suo studio è situato in un antico palazzo rinascimentale del centro storico ed è arredato come fosse quello di un rinomato avvocato, persino la penombra nebbiosa sulla scrivania sembra voler sottolineare questa improvvisata ricercatezza e la polvere ha l’aspetto di avere un’arcaica provenienza. La mobilia è antica ma senza senso, come alcuni tomi del Seicento che adornano la libreria, il computer portatile guarda spaesato verso alcuni telefoni che hanno l’aspetto di essere stati scaraventati sullo scrittoio da qualche inventore proveniente dal futuro. L’odore è piacevole, di legno e connessioni senza cavi, in un angolo vi è una pachira rigogliosa e sulla parete opposta una lampada da terra che con un barlume ne illumina i fugaci fiori già prostrati mentre dipingono con nuovi colori le parti circostanti. Alle sue spalle, il dipinto è la “Separazione” di Munch, l’uomo si allontana, straziato, dalla chioma iridescente verso una terra fronzuta e intanto lei, sfavillante di trionfo, carezza lo sciabordio del suo favorevole destino ed è quel che le si addice dopotutto, nugoli di catrame rabberciano i passi raggomitolati dell’uomo abbandonato, prigioniero dell’artiglio inesorabile di quei ricordi dove vicoli impraticabili rendono inattuabile la fuga. «Ho fatto dei calcoli – afferma con un’espressione appagata – con qualche stratagemma, che se vuoi ti spiegherò in seguito, potremmo ridurre considerevolmente la somma che ogni mese versiamo per il mantenimento di tuo figlio»; è, per la verità, impacciato nella previsione di dover presentare, al termine della cordiale visitazione, la parcella a un amico ma, perlomeno, ottenendo inaspettati risultati, potrebbe comprensibilmente essere esonerato da codesta ingiustificata timidezza. Mi domando perché, in taluni contesti, certi utilizzino il plurale maiestatico nel parlare di una condizione che in realtà non riguarda la loro persona. Effettivamente se riducessimo la somma dovuta per il mantenimento, anche l’avvocato ne trarrebbe un vantaggio che non è quello della parcella cui sarei comunque debitore ma della meritata condizione di renderla il giusto corrispettivo all’impegno profuso con evidenti e indiscutibili risultati. Ma quel “versiamo” mi ferisce, mi persuade a calarmi nei panni di chi meriterebbe, senza troppe congetture, quella somma di denaro che sarebbe ben più consistente se non si fosse giunti ad una separazione. Ancor più grave è la misurazione del tempo da dedicare al figlio vittima della separazione, non è il risultato di una somma che corrisponde al tempo fino a quel momento ricevuto ma è un’insanabile sottrazione… È evidente che al legale tutta questa premura non possa importare, ma vorrei rimembrargli di quella volta che, ai tempi del liceo, baciai la sua fidanzata Irene, Irene Muti, che ha sposato quand’ancora era uno studente fuoricorso, dopo averla ingravidata e da cui ha divorziato qualche anno fa, così non avrebbe di che premurarsi nel presentarmi la dovuta parcella, altroché, strapperebbe in mille brandelli quelle carte con le sue equazioni e la somma dovuta diverrebbe improvvisamente congrua.
   
Presentazione del libro
Presentazione del libro
Audiolettura: La processione
   
LA PROCESSIONE
È primavera. Dondolano dorati i canneti, abbarbagliando le violette e le primule rinate tra le crisalidi, sfavillano, al tramonto, i mandorli di brina, al soffio di Zefiro, tra i capelli fulvi di grano mentre il mare turchino s’infrange sulle pietre che rotolano candide e fragorose tra i fiotti, irrompe l’aurora corrusca tra le persiane risvegliando azzurrina Venere tra i fiordalisi che già s’attarda, gioconda all’imbrunire e le fanciulle rifioriscono danzando tra i mirti mentre si disperdono infelici le nuvole e la bruma, ragionando adombrate dell’inverno morente, talmente prese dalla rugiada sui ranuncoli assolati da non saperne di salsedine della canicola. Le luminarie luccicano sotto un cielo non ancora imbrunito mentre i rintocchi ammansiscono i fedeli e gli effluvi acri delle frasche incendiate dai mezzadri sopraggiungono immischiandosi all’incenso lieve dei turiboli. I confratelli dondolano in fila avanti e dietro al santo, il più rubizzo reca il gonfalone, attorniato da due inconsapevoli fanciulli che si trastullano con i cordoni del vessillo; avanti al santo tutti i preti della città e per ultimi, con un’espressione appagata e ben agghindati, il vescovo e don Peppino, sotto il baldacchino portato da otto tra i più poderosi; infine io, tra le autorità civili e militari, la banda musicale e i fotografi.
   
   
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