IL MIO SANTISSIMO
   
   
Il mio Santissimo
   
IL MIO SANTISSIMO (2023)
Questo libro non è in vendita, l’ho scritto per alcuni amici, parenti e per i suoi protagonisti. L’ho comunque inserito nella mia bibliografia per affetto nei confronti di Francesco Paolo Galasso, di Alfredo Cavalieri, dell’Arciconfraternita dei Bianchi, sotto il titolo del Santissimo Sacramento di Trani, dei confratelli e di tutti i miei amici legati a queste tradizioni.
Vi racconterò la mia esperienza nel sodalizio che iniziò nel 1989 e durò fino al 2012 quando decisi di dimettermi. Vi racconterò inoltre alcuni aneddoti, alcune mie impressioni, alcune riflessioni, persino alcune leggende sui personaggi che ho incontrato e un po’ di curiosità sulla tormentata processione dei Misteri che si svolge il Sabato Santo, anzi no, il Venerdì Santo; per la verità quando fu istituita si svolgeva il Venerdì santo, successivamente è stata spostata al Sabato e poi di nuovo al Venerdì.
I miei racconti non saranno precisissimi e potrebbero persino essere errati nella collocazione storica o nei riferimenti a determinate persone anziché altre poiché per la maggior parte mi baserò sui soli ricordi e non su fonti scritte, e purtroppo la memoria comincia ad abbandonarmi.
   
LETTURE
   
   
Ricostruzione cappella
Ricostruzione cappella
   
LA NOMINA DEL 1990
Entrando per la prima volta nella spoglia del sodalizio (in quel tempo vi si accedeva dalla seconda porta, a partire dal campanile, sulla facciata laterale opposta al mare; subito a sinistra si saliva verso la chiesa superiore, di fronte all’ingresso si accedeva alla chiesa di Santa Maria, a destra alla cripta di San Nicola, mentre a sinistra, dopo le scale per la chiesa superiore, si scendeva verso la cappella del Santissimo) la prima sensazione che provai fu di stupore e di disagio.
Scendendo appena cinque o sei gradini, non lo ricordo più, mi sembrò di attraversare una finestra spazio temporale e fare un viaggio nel passato, mi sembrò di tornare indietro, almeno al secolo scorso. “Buonasera barone”, “Buonasera marchese”, persino il baciamano, quello praticato da nobili ovviamente, senza baciarla davvero la mano. Possibile, mi chiedevo, che nel 1990 esista ancora tutto questo?
«Benarrivato Don Salvatore!» esclamò il barone seduto in fondo alla spoglia sul suo irrinunciabile scanno. E certo, non avendo io titoli nobiliari e non potendoli acquisire dalla mia fidanzata poiché credo che solo le donne li acquisiscano dai mariti, l’unico appellativo per concedermi un po’ d’aria di nobiltà era il don. Che ne capivo io che fino a quel momento ero abituato a chiamare don, soltanto don Aldo? Infatti esitai a rispondere al barone, provocando una lieve accentuazione del suo cipiglio, poiché non pensavo si rivolgesse a me; mi voltai impacciato verso l’ingresso della cappella pensando di stare a intralciare il passo proprio a quel don Salvatore che, sebbene non l’avessi visto, doveva essere entrato subito dopo di me. Ma poiché tutti si voltarono nella mia direzione, compresi che quel don Salvatore, non prete e non nobile, era riferito a me.
Mi affrettai a raggiungere il barone per stringere la sua mano, ma giunto a lui vicino, egli con i suoi occhi, e che occhi, mi fulminò, li sgranò, lasciandomi con la mano menata per aria, e con un impercettibile movimento delle pupille mi indicò che al suo fianco v’era una nobildonna; mi fece comprendere, con due di quei fulminei movimenti, che avrei dovuto dapprima salutare lei. Lei mi osservava sorridente, una bellissima nobildonna, osservava questo ragazzetto di ventidue anni, appena arrivato nel secolo scorso, impacciatissimo, con la mano ferma a mezz’aria, che si chiedeva cosa dovesse fare.
«Che faccio? – mi chiedevo infatti io – le stringo la mano o gliela bacio come ha fatto il barone?».
«E se poi senza volerlo la tocco con le labbra?».
Per me era troppo imbarazzante fare il baciamano, non lo avevo mai fatto.
«C’è sempre una prima volta» pensai, porsi la mia mano verso la nobildonna, feci per chinarmi, ma lei, avendo compreso il mio imbarazzo, prese la mia mano e la sollevò verso l’alto trasformando il mio primo atto nobiliare in una borghese stretta.
   
La Domenica delle Palme
Vendita delle palme
   
LA DOMENICA DELLE PALME DEL 1990
Al dilucolo s’apprestano come ogni anno sul nartece i venditori abusivi di palme, giungono guardinghi, poco prima degli zingari, per accaparrarsi un posto e assiemano in fretta e furia i loro banconi a ridosso della cancellata facendo di buon’ora un gran baccano; poi agghindati si siedono sugli sgabelli sgangherati, osservati dagli zingari crucciati, già pronti per la questua sugli scalini del sagrato. È domenica delle palme, i venditori assomigliano a quelli dello scorso anno, provengono dai palazzoni della periferia e, come loro, sostengono persuasi che i loro ramoscelli di ulivo siano di buona fattura e che non abbisognino di alcunché, tantomeno della benedizione del curato:
«Sono già benedette – dicono – sono garantite».
Il parroco li osserva importunato, mulinando il suo orologio che guarda di tanto in tanto, poi fugge preferendo ai gradini la rampa riservata ai disabili; sui loro tavolieri ve ne sono di variopinti e assortiti in grande quantità: ramoscelli dorati, argentati, frasche di palmizio a forma di croce o finanche di vessillo, imbustati con nastri azzurri, verdi e gialli, alcuni con parole benaugurali, altri con messaggi propiziatori.
Quand’ero bambino, pensavo:
«Vorrei essere anch’io un venditore di palme e lavorare solo una volta all’anno, al massimo due perché suppongo che bisogni confezionarle, dipingerle, intrecciarne le fronde, ma tutto sommato, dovrebbe trattarsi di lavoro divertente e poco estenuante, ci avrei guadagnato per ben due volte giacché avrei poi donato le palme avanzate ai miei nonni che in cambio avrebbero generosamente elargito monete, uova di cioccolato e “scarcelle” ricoperte di “gileppo”.
   
La desolata
La Desolata
   
IL GIOVEDÌ SANTO DEL 1990
Si giunse così alla chiesa del Miracolo Eucaristico avvolta da un’atmosfera surreale e commuovente: via Attilio Lagalante era completamente al buio, vi erano soltanto, sui muri delle case prospicienti e su alcuni balconi, alcuni lumini che dalle fioche fiammelle che avvolgevano i luminelli diramavano un fievole baluginio appena sufficiente a intravedere l’ingresso della chiesetta, mentre si udiva il bisbiglio sommesso dei tanti visitatori sopraggiunti.
Da lì, dopo aver fatto visita al Sepolcro della chiesa di San Francesco, si tornò indietro per visitare, in un’altra atmosfera surreale e commovente, quello della chiesa di Santa Teresa; Sepolcro sfortunato poiché sebbene di pregevole aspetto, finiva per passare sempre in secondo piano rispetto alla sovrastante Desolata già in procinto di venir fuori a luci spente mentre qualcuno avrebbe esclamato:
«Citt ca stè ad assei la Madonn!» tra il cincischiare irriverente dei giovani.
E sarebbero salite al cielo le note della marcia funebre “Riposo eterno” di Carrozza.
Quando accompagnavo mia nonna, quarant’anni fa, tutt’al più, tra le note asincrone irrompeva un lamento, un grido, una richiesta d’intercessione. Ricordo quella volta, ero così piccolo che mia nonna mi teneva per mano, che un’anziana donna accanto a noi urlò improvvisamente implorando la Madonna Addolorata di concederle la grazia per farla morire poiché stanca di una vita fatta solo di sofferenze. Mi voltai sgomento verso la donna, non era molto diversa da mia nonna, aveva le lacrime agli occhi, e sembrava inevitabile doverle esaudire quel desiderio. Mia nonna, avvedendosi del mio turbamento, mi strinse la mano, mi sorrise, e con uno sguardo protettivo, mi suggerì di non ascoltarla e di volgere lo sguardo verso di lei: Stabat Mater.
   
   
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