L'INCONSISTENZA DEI GIORNI
   
   
L'inconsistenza dei giorni
   
L'INCONSISTENZA DEI GIORNI (2023)
Il professor Camillo è perdutamente innamorato della baronessa Elvira degli Archi Cervi; un amore impossibile poiché lui non è un aristocratico, ma in realtà questo è il problema minore, la baronessa è deceduta, diciassettenne, ormai da centotrentatrè anni; incantato davanti alla fotografia apposta sulla sua lapide non si avvede dell’orario e resta chiuso nel cimitero dove incontra un fantasma. Suo figlio Jonathan nasconde un angosciante segreto; la relazione con sua moglie Virginia non funziona; Camillo decide di attraversare una finestra spazio temporale per tornare nel passato e sistemare alcune faccende. Esiste un luogo a Trani, sotto il Belvedere, procedendo da via Venezia in direzione del Lungomare Cristoforo Colombo, scendendo verso la città, contando sei panchine, partendo dalla prima a semicerchio, è la sesta, ingrottata nello speco più profondo, dove questa finestra si può attraversare.
   
LETTURE
   
   
La baronessa Elvira degli Archi Cervi
La baronessa Elvira degli Archi Cervi
   
2 NOVEMBRE 2021 - LA BARONESSA ELVIRA
Al crepuscolo il cielo, con reminiscenze turchine, affagottava il mormorio dei tordi affamati in cerca di lombrichi, e le lampadine che illuminavano le lapidi del Camposanto, diventando intermittenti al passaggio dei rami dei cipressi ondeggiati dal maestrale, disegnavano irriverenti alberi di Natale tra i viali.
Camillo scoprì di essere ormai innamorato di Elvira, conosciuta grazie a una fotografia apposta sulla lapide stinta situata nella terza fila a partire dall’inizio dell’angusto corridoio della cappella della Madonna Addolorata, al terzo ripiano contando dal loculo più in basso. A stento si riusciva a leggerne l’iscrizione sepolcrale: “N.D. Elvira degli Archi Cervi, Baronessa”. Quelle rare volte in cui si recava al cimitero per far visita a sua madre, non poteva fare a meno di entrarvi sebbene non fossero seppelliti suoi parenti; la cappella era situata dopo alcune tombe, a sinistra della chiesa cimiteriale di Santa Maria del Soccorso. I loculi partivano dal pavimento, fino ad arrivare al soffitto, sei in altezza e quindici in lunghezza, sia per una parete che per quella opposta; tra le due file vi era un corridoio stretto con al centro due portaceri in ferro battuto nero, completamente ricoperti di cera squagliata da molto tempo, con sopra tre, quattro lumini spenti per ognuno; poggiata sulla quarta fila dei loculi vi era una scala di ferro utilizzata per raggiungere le lapidi poste più in alto. Per quei morti era una fortuna starsene in alto e poter godere di quel panorama, almeno fino a quando non sarebbero stati trasferirti in un minuscolo loculo per l’ossario; se non altro perché da quell’altezza si poteva guardare oltre il davanzale del finestrone che si apriva alla fine del corridoio; un po’ meno fortunati erano i loro parenti che avrebbero dovuto arrampicarsi sulla scala di metallo recando in mano dei crisantemi o un lumino acceso.
«È morta nel 1888 – pensò Camillo mentre carezzava il volto cereo di Elvira impresso nella fotografia, lo carezzava lentamente e lievemente per paura di scalfirlo – come può essere ancora così affascinante? – si chiese – Le sue labbra sono carnose e i suoi occhi sono simili a quelli delle banconiere da caffetteria, mentre pigiano con il pressino e spennellano il portafiltro. È nata nel 1871 e di lì a poco, se non fosse prematuramente morta, avrebbe raggiunto la maggiore età».
S’intravedeva, aguzzando la vista verso il portafoto sgangherato, una camicetta impero bianca, il suo sguardo perplesso, probabilmente poiché di fronte all’insolito soffietto della fotocamera, e indossava un’acconciatura vittoriana a decorazione floreale. Nel suo sguardo traspariva grande serenità, come se non fosse ancora stata colpita da un grave male o non ne fosse consapevole. Oppure ne era ben consapevole, ma per immortalarla in una fotografia che sarebbe giunta fino a noi, dopo centotrentatré anni, era assolutamente necessario uno sforzo degno di una baronessa. Camillo era talmente assorto nella sua splendente bellezza da non avvedersi del suono della sirena che, annunciando l’imminente chiusura del Camposanto, echeggiava incorniciando il dramma della solitudine dei morti, dirompente tra i cipressi; quel segnale era simile all’ululato che negli anni quaranta precedeva i bombardamenti della guerra; ma lui inerte se ne stava lì, accanto alla bellissima nobildonna, seduto e inconsapevole, mentre lo fiutavano sornioni dei fantasmi, che danzando dalle file alte, dimenavano circospetti chiaroscuri, ombre lunghe e smilze che dai lumini, silenziose, si avviluppavano caliginose sui nomi antichi.
A un tratto trasalendo si rese conto di essersi trattenuto più del consentito, erano già le venti e trenta, orario di chiusura, e per un attimo gli tornò in mente che quando accompagnava sua madre, sin dalle venti lei lo esortava ad accelerare il passo, intimandogli di smetterla di accendere cerini dai lumini posti accanto alle lapidi, e così giungevano ansimanti sotto il fornice, con grande apprensione.
«Attento a non cadere!» squittiva sua madre poiché chi avesse avuto la sventura di cadere nel Camposanto, avrebbe pericolosamente rischiato di morire per malaugurio.
«Fate presto! – esortava dal canto suo, impaziente, il custode – o vi chiuderò dentro!».
Quell’uomo aveva l’aspetto di un cadavere a furia di starsene lì, certamente era già abituato all’idea di ritrovarsi prima o poi tra quei morti che lui conosceva a uno a uno, e non mancava di scambiare opinioni con loro mentre spazzava i viali accano ai loculi; alcuni gli erano simpatici, altri li detestava e non esitava a comunicarglielo.
«Buonasera Camposanto, buonasera a tutti quanti, voi eravate come noi e noi saremo come voi» ripetevano le vecchie signore con dei foulard neri sul capo mentre uscendo varcavano il cancello. Solo alla chiusura, dopo aver azionato la sirena, il custode sembrava riprendere vita, una vita normale, per tutto il resto del tempo se ne stava immobile, con lo sguardo di chi scruta l’orizzonte come un minaccioso Caronte qualunque.
Improvvisamente Camillo udì un rumore di passi proveniente dal piano superiore e gli parve anche di udire delle salmodie inquietanti, come se provenissero da una tregenda, ma quel canto somigliava più allo Zinskaro di Hamlet Gonashvili che a un salmo; sgomento si alzò in piedi di soprassalto, guardò dapprima verso il corridoio di destra, da dove gli pareva provenissero i canti, poi verso la porta, un’inferriata nera che racchiudeva una vetrata trasparente con delle croci al centro; con uno scatto fulmineo si diede da fare per raggiungerla in fretta, ma in prossimità dell’uscita si rese conto che era già chiusa.
«Sono rimasto chiuso dentro!» pensò angustiato ad alta voce.
Per un attimo gli tornò di nuovo in mente sua madre, ricordò che nella notte tra l’uno e il due novembre era solita lasciare la tavola imbandita. Una cena frugale: apparecchiava un piatto con una micca di pane, al lato destro un tovagliolo con sopra una forchetta e un coltello, dietro il piatto un bicchiere e una bottiglia di vino. Era irremovibile nell’adempimento di questa consuetudine, un rito realizzato in onore delle anime dei morti che in quella notte sarebbero tornate nelle case per far visita ai loro cari. Mentre Camillo ci pensava fu assalito da un’ingiustificata paura; tutto sommato quella di sua madre era solo una credenza popolare senza alcun fondamento di verità, non c’era alcuna ragione di essere così terrorizzato, ma il rumore dei passi era sempre più forte, sempre più vicino.
Anche se il luogo non era appropriato pensò di accendersi una sigaretta per scaricare la tensione, ma quando sfregò la rotella zigrinata del suo accendino, i canti si acquietarono improvvisamente e anche i passi si fermarono, si udiva soltanto il suono lamentoso del vento che trasportava con sé un brusio di bambini che incauti sogghignavano, canticchiavano e si muovevano come se stesero facendo turbinosi girotondi. Volse di nuovo lo sguardo verso Elvira, lei non sembrava preoccupata e nemmeno stupita. La ragazza era morta di tisi, come Margherita de “La signora delle camelie”, per questo era pallida, non solo perché di rango; doveva aver tossito con grazia infinita, prima di chiudere per sempre gli occhi. Il rumore dei passi ricominciò più forte e sembrava che anche l’eventuale sopraggiungere di qualcheduno fosse più prossimo.
«Per esortarmi a mettere da parte i miei giochi – pensò Camillo – evidentemente non appropriati per quel luogo, mia madre raccontava di una donna che non credeva affatto alla storia delle anime che girovagano per le case dei loro cari; la diffidente e sventurata signora, di nascosto e con il favore delle tenebre, proprio mentre le anime si aggiravano per i viali, si era appostata su un terrazzo prospiciente il cimitero, aveva riempito una bacinella con dell’acqua e si era seduta a guardarvi i riflessi poiché qualche esperto di magia nera o occultismo, o più probabilmente qualche sprovveduto, le aveva riferito che, nella notte tra l’uno e il due novembre, fosse possibile osservare le anime utilizzando questo stratagemma. L’avevano ritrovata morta stecchita all’indomani e avevano ritenuto che fosse deceduta per lo spavento, vedendo, inaspettatamente riflessi nella bacinella, i morti mentre s’incamminavano tra i viali del Camposanto».
«C’è qualcuno?» chiese Camillo atterrito. Il coro si zittì di nuovo e non si udì più il tocco dei passi. Ormai, se ci fosse stato qualcuno, sarebbe stato già dietro l’angolo, alla fine della prima fila di loculi.
«C’è qualcuno?» urlò più forte, ma non ricevette alcuna risposta.
Il vento zufolava dal coprifilo, e lo stormire delle foglie rinsecchite, mulinate sulle chianche, rimbombava come le catene che, circondando le caviglie dei fantasmi, sono trascinate per diletto nel maniero, mentre gli allocchi bubolavano ritmicamente e, fuori dal cancello, dei cani randagi ululavano. Camillo si avvicinò a Elvira, come per chiedergli protezione, la toccò. Quale protezione avrebbe potuto offrirgli la ragazza morta di tubercolosi a soli diciassette anni, sebbene allora non fossero pochi, come del resto anche quelli di oggi, ma quale protezione avrebbe potuto offrirgli un fantasma contro altri spettri?
Un soffio più vigoroso fece dondolare e spense i luminelli galleggianti di quei pochi lumini che gli lasciavano un barlume, tranne uno, quello accanto alla lapide di Elvira, che lui stesso aveva deposto per guardarla meglio; non vi erano luci elettriche, ormai tutti gli eredi di quelle e quegli antichi sventurati erano morti e sepolti o comunque non importava più a nessuno di illuminare il loro eterno riposo.
«Ci mancava anche il buio!» pensò Camillo trasecolando.
Il tremolio della fiammella che avvolgeva il luminello la faceva sembrare una sagoma con due gambe blu e un corpo giallo, e le ombre che baluginavano fuggendo dalle lapidi, cambiavano il volto di Elvira, sembrava volesse fuoriuscire improvvisamente dal suo loculo; e vi sarebbe anche uscita, non si poteva escludere del tutto, considerando la situazione in cui si era cacciato. Camillo si voltò verso l’androne da dove provenivano i passi che in quel momento non si udivano più. Gli parve di intravedere un movimento, ma non ne era certo a causa del buio pesto. Avrebbe potuto trattarsi dell’effetto della fiammella sempre più fioca, sballottata dagli spifferi provenienti dalla porta, ma in realtà quella forma, all’inizio appena accennata, sembrava prendere sempre più consistenza.
Aveva delle gambe che procedevano guardinghe, posando i passi lentamente, senza far rumore. Il respiro di Camillo era diventato ansimante. Sembrava proprio un corpo, con le braccia penzoloni, poco dopo comparve improvvisamente anche la testa. La luce di Elvira rendeva finalmente grazia.
«Non sembra trattarsi di una donna – pensò Camillo portando il dito indice tremante alla bocca, tra i denti – Elvira! – esclamò senza rendersi conto di quanto fosse surreale la supposizione – Sei tu?».
«Potrebbe essere mia madre – continuò a chiedersi Camillo riprendendo le sue congetture in preda al terrore – che torna in vita e serba per me le sue solite rampogne, oppure, con maggiore probabilità, si tratta di qualcun altro che, come me, non si è avveduto dell’ora tarda».
Fortunatamente il suono metallico di un chiave che aprì l’inferriata nera all’ingresso della cappella, e il fascio luminoso di una torcia elettrica, interruppero lo sgomento; era il custode, un brav’uomo, che in un fortuito giro conclusivo di perlustrazione aveva udito strani rumori provenienti dall’interno.
«Non so proprio come ringraziarla – esclamò Camillo correndogli incontro – è giunto nel momento più opportuno…».
«Cosa ci fa lei qui – lo interruppe perplesso il custode, indietreggiando e trovando fuori luogo le eccessive effusioni di Camillo – chiuso nella cappella a quest’ora? – simulò così dicendo di cercare una chiave tra le tante inserite in un grosso anello – È una fortuna che io sia arrivato!».
«Sì, ha ragione – continuò trafelato Camillo – ha proprio ragione, è una fortuna; mi ero assopito – disse voltandosi all’indietro e indicando la lapide della baronessa, ma osservando nella direzione in cui aveva visto il fantasma che intanto era scomparso – ero con Elvira e mi ero assopito… ma andiamo via in fretta ora» concluse affrettandosi verso l’uscita.
«Forse avrei dovuto avvisare il custode della presenza di un altro sventurato, ma se poi si trattava davvero di un fantasma?» pensò Camillo mentre si avviava verso l’uscita seguendo passo, passo e a distanza ravvicinata il provvidenziale custode.
   
Il castello incantato
Il castello incantato
   
09 MARZO 2012 – IL CASTELLO INCANTATO
«Jonathan, Jonathan è ora di scendere dal Castello incantato – impose Virginia alzando la voce – dobbiamo tornare a casa».
«Ancora un po’ mamma – rispose Jonathan – sto parlando con i miei amici».
«No Jonathan – insistette Virginia – scendi immediatamente da lì. Camillo va’ a prenderlo!».
«Aspetta Jonathan – sussurrò lo sconosciuto incontrato sulle scale del Castello incantato, trattenendo il bambino per un braccio – resta ancora un po’ ti prego».
«Non posso, mia madre e mio padre mi stanno chiamando – gli rispose Jonathan guardando prima verso lo sconosciuto e subito dopo in basso verso sua madre, mentre suo padre non riusciva a vederlo – devo scendere immediatamente».
«Mi abbracci prima di andar via? – chiese lo sconosciuto allargando le braccia – solo per un attimo, poi vai via».
Jonathan si fermò, ci pensò qualche secondo, poi allargò le braccia muovendosi verso lo sconosciuto. Intanto il padre cominciò a salire le scale del Castello incantato, si udiva il rumore dei suoi passi, era più pesante rispetto al ticchettio di quelli dei bambini, ma più si avvicinava al ballatoio del ripiano dove si trovava Jonathan, più il suo passo si faceva felpato, più lento. Camillo aveva udito una voce che non gli sembra affatto quella di un bambino.
«Chi c’è sopra il Castello incantato – si chiese tra sé e sé rallentando e silenziando i suoi passi – ho udito prima la voce di Jonathan, poi quella di un adulto».
Intanto Jonathan abbracciò lo sconosciuto che ricambiò per qualche istante, poi si allontanò, lo osservò, una lacrima scivolò dal suo occhio destro rigando il suo volto fino a perdersi nella sua barba, lo baciò sulla fronte. Si allontanò improvvisamente da Jonathan, i passi si erano improvvisamente interrotti, ma lo scricchiolio del gradino di legno e il silenzio improvviso gli fecero ritenere che a salire le scale non fosse un bambino. Prese la mano di Jonathan e lo esortò a scendere immediatamente, ma quando si voltò verso le scale, Camillo era ormai di fronte a lui.
«Cosa ci fa lei qui – esclamò Camillo guardando lo sconosciuto negli occhi mentre erano uno di fronte all’altro a pochi centimetri – cosa ci fa sopra una giostra per bambini?».
«Ehm… Sono… Sono un elettricista – rispose dopo qualche istante di esitazione lo sconosciuto, lasciando andare lentamente la mano di Jonathan per non destare l’attenzione di Camillo – devo sostituire un faretto alla torre del Castello incantato. Non vede com’è buio quassù?».
«Un elettricista? Io non l’ho vista entrare, – ribatté Camillo – eppure sono qui sotto da un bel pezzo, da dove è entrato? – e abbassando lo sguardo in direzione della mano dello sconosciuto e quella del bambino che si stavano distaccando lentamente – soprattutto mi dica, perché tiene per mano mio figlio?».
Così dicendo Camillo allontanò con forza la mano del figlio da quella dello sconosciuto sebbene già non fossero più unite.
«Lo stavo accompagnando – rispose lo sconosciuto indicando le scale – ho ritenuto che, a causa del faretto non funzionante, potesse non vedere l’inizio dei gradini e potesse inciampare. Non pensi a male, la prego – e rivolgendosi a Jonathan – è vero bimbo? Dillo anche tu a tuo padre che le cose stanno così come ho detto».
Camillo volse lo sguardo verso Jonathan, e suo figlio:
«È vero, papà – disse annuendo – è proprio così come dice il signore».
«Andiamo via da qui – esclamò Camillo prendendo Jonathan per mano – dammi la mano e fa’ attenzione alle scale – e rivolgendo allo sconosciuto un ultimo sguardo pieno di stizza – la mamma ci sta aspettando».
   
L'incrocio
L'incrocio
   
UN GIORNO DEL 2022 – L'INCROCIO
La strada era affollata, c’era un insolito andirivieni all’incrocio tra via Roma, via Tasselgardo, via Malcangi e via Imbriani, l’attenzione di Camillo fu catturata da un’anziana donna affacciata alla finestra del palazzo rosa, all’inizio di via Imbriani:
«C’è uno strano professore – disse la donna alla finestra indicando Camillo – che se ne sta immobile sul ciglio della strada da giorni. Fermatelo! Chiedetegli cosa vuole da una povera vecchia come me».
La donna indossava una camicia da notte bianca con un pizzo sulla scolatura e manica svasata con volant; aveva assistito per anni suo marito ridotto a una larva, da tempo immobilizzato a letto e impossibilitato a provvedere a sé stesso, ma ormai il marito era morto da più di un mese e lei, se in un primo momento si era sentita liberata dal pesante fardello dell’assistenza, subito dopo cominciò a sentirsi inutile e riteneva che la sua vita fosse priva di senso.
«Lei si sbaglia signora – disse Camillo portando le mani al petto come per discolparsi – mi avrà scambiato per qualcun altro…».
Virginia e Camillo avevano deciso di pranzare fuori, dunque si diresse verso la Caffetteria Room 91, nei pressi del Liceo Classico de Sanctis, in via Tasselgardo, dove già lo attendeva irrequieta Virginia, avrebbero mangiato lì, qualche panzerotto fritto, patatine e focaccine, e lui avrebbe bevuto un bicchiere di prosecco.
La donna restò immobile, con una mano sul davanzale, da dove pendevano dei gerani insecchiti di colore nerastro, mentre con l’altra continuava a indicare Camillo e un piccione sbilenco si era posato proprio sul braccio con cui lei lo incolpava, ma lei non ci dava peso, e mentre Camillo cercava le parole per giustificarsi, lei si voltò di scatto verso un ragazzo, lo osservò torva, anche il volatile guardò verso il ragazzo, tubando e ondeggiando il capo.
«Salvate Jonathan – urlò la donna – è mai possibile che in questa dannata città vi sia gente così insensibile? E lei? Se ne sta lì impalato e non fa nulla per suo figlio che sta per morire?».
Camillo si terrorizzò, guardò verso il luogo che indicava la vecchia, ma Jonathan non c’era.
«Signora – urlò Camillo indicando il luogo ma guardando verso la donna – nel luogo da lei indicato non c’è nessuno!».
La signora non rispose, rise lievemente, allora Camillo guardò di nuovo verso il punto indicato dalla vecchia e continuava a non vedere nessuno.
«Guardi lei stessa, osservi bene...» disse, e intanto alzò di nuovo gli occhi verso la signora, lei gli fece un cenno con l’indice della mano destra come per invitarlo a salire, aveva un’espressione minacciosa ed era invecchiata di molto, ancor più di quanto già non lo fosse, il riquadro della finestra era diventato come un film in bianco e nero.
Improvvisamente la finestra si svuotò, diventò nera come se l’appartamento fosse senza mobilia, una dimora abbandonata, come se la donna volatilizzandosi si fosse trasformata in un fantasma, i gerani precipitarono verso il basso, anche il piccione si era volatilizzato, anche se si udiva ancora il suono di una catena trascinata sul pavimento, una zingara con l’occhio di vetro attraversò a piedi nudi vico San Francesco, e il sole, passando sopra la testa di Camillo, fuggì dietro l’orizzonte, in direzione di Deliceto, si fece subito buio pesto poiché i lampioni tardarono ad accendersi, come se fossero stati sorpresi dall’improvviso tramonto, si accesero a uno a uno, da sud verso nord, come se un lampionaio munito di asta, a turno, accendesse dei lampioni ad olio.
Un rumore di passi in corsa, sebbene Camillo fosse sgomento, attirò nuovamente la sua attenzione ed egli si voltò verso via Tasselgardo, era Jonathan che correva, aveva un’espressione impaurita, di tanto in tanto si voltava all’indietro come se avesse voluto accertarsi di essere sufficientemente in vantaggio sul suo presunto inseguitore.
Era talmente preoccupato da travolgere la gente che gli passava davanti.
«Jonathan! Jonathan! Jonathan!» lo chiamò urlando Camillo, ma il ragazzo non si fermò.
Camillo non riusciva più a vederlo, una moltitudine di gente gli si parò davanti osservandolo con un riso sardonico, avevano tutti gli stessi lineamenti, gli stessi capelli e gli stessi abiti, sembrava intenzionale quel loro frapporsi tra lui e il figlio, si somigliavano tutti e somigliavano a lui stesso.
Accelerò strattonando quelli che erano davanti e gli impedivano di raggiungerlo. Continuò a chiamarlo a gran voce mentre sentiva le gambe sempre più appesantite, il sopraffiato gli annebbiava la vista, tutto appariva sfocato.
Improvvisamente si udì il suono stridulo di una frenata di automobile e un tonfo…
   
Sotto il Belvedere
Sotto il Belvedere
   
UN GIORNO DEL 2022 – IL FANTASMA
«C’ è una sagoma sulla mia poltrona – pensò Camillo destatosi di soprassalto mentre stropicciava gli occhi – sto forse sognando?».
Aguzzò la vista per mettere meglio a fuoco, ma non riuscì a comprendere di cosa si trattasse, quindi accese la lampada del suo comodino, ma fatta luce, la sagoma che gli appariva al buio scomparve. Perplesso e titubante spense di nuovo la lampada e immediatamente quella ricomparve lì dov’era. Quindi riaccese ancora, ma la sagoma scomparve nuovamente per ricomparire daccapo quando spense. Camillo pensò allora a un gioco di luci e ombre, del resto sulla spalliera della poltrona era posata la sua giacca. Continuò per qualche secondo ad accendere e spegnere la luce della lampada e la sagoma continuò imperterrita a comparire al buio e scomparire alla luce.
«Chi è lei, seduto sulla mia poltrona?» domandò cominciando a impaurirsi, ma non ricevette alcuna risposta.
«Potrei dormire con la luce accesa» pensò carezzandosi la barba e con il dito indice sulle labbra, ma scuotendosi immediatamente da quell’ingiustificata paura che lo aveva assalito, spense immediatamente la luce e alla sagoma che prontamente ricomparve domandò con tono perentorio:
«Chi è lei? Cosa ci fa in casa mia e per giunta sulla mia poltrona? Inoltre perché compare al buio e scompare alla luce?».
La sagoma, che fino ad allora era rimasta immobile, tanto da sembrare un oggetto inanimato, una giacca ad esempio, accennò un lieve movimento, come un uomo seduto che, da adagiato sulla spalliera, si portava in avanti. Camillo ricominciò quindi ad aver paura, mentre la sagoma, con una voce arrochita dal troppo silenzio, ma morbida disse:
«Mi perdoni l’intrusione…».
Tentò invano di rischiararsi la voce e proseguì:
«Mi perdoni anche se preferisco il buio alla luce…».
«Bando alle ciance! Venga al dunque!» lo interruppe stizzito Camillo.
L’intruso, rischiarandosi nuovamente la voce con più vigore, continuò:
«Ha ragione, mi perdoni. Mi chiamo… Ludovico…».
Camillo si mise in piedi, fingendo d’ignorarlo, si diresse verso la cucina, prese la caffettiera e il barattolo porta caffè dal pensile e preparò la bevanda.
Sedette di fronte al televisore osservandolo come fosse acceso, le schermo rifletteva la sua immagine che apparentemente non era per nulla perplessa. Accese il televisore, i suoi gesti erano quelli consueti di tutte le mattine: il caffè, il televisore acceso e sintonizzato sempre sullo stesso canale, quello delle notizie provenienti da tutto il mondo. Bevuto il caffè accese un sigaro, aspirò due boccate, si alzò improvvisamente e si diresse nella camera da letto dove lo attendeva indifferente il suo ospite.
«D’accordo, d’accordo!» esclamò dirigendosi verso di lui che intanto aveva preso un libro dal canterano e lo stava sfogliando apparentemente senza leggerlo. Si trattava di Antigone, la tragedia di Sofocle.
«Lei dunque non è un sogno, del resto non è stato un sogno preparare e bere un caffè e non lo è ora fumare questo sigaro. Mi dica cosa vuole da me, facciamo in fretta, non ho tempo da perdere!»
Ludovico, senza sollevare lo sguardo dal libro e inclinando il capo dalla parte opposta alla pagina che stava leggendo, chiese:
«Chi è lei? Antigone o Ismene?».
E dopo una breve pausa, sollevando lo sguardo verso Ludovico e chiudendo il libro, ma utilizzando il dito indice come segnalibro di fortuna, continuò:
«… o Polinice?».
Camillo non rispose, restò in silenzio a osservare quel signore di mezza età, più o meno suo coetaneo, che era entrato illegittimamente in casa sua e soprattutto senza aver bussato.
«Lei dovrebbe sapere – riprese a parlare Ludovico con tono canzonatorio – per quali ragioni alcuni, a volte, irrompono nelle vite di certe persone…».
«Non mi faccia gli indovinelli, la prego» lo interruppe Camillo.
Poi esitando per qualche istante e scuotendo il capo, Camillo si chiese sottovoce:
«Ma… ma come ha fatto a entrare mentre dormivo?».
«Mi lasci parlare – lo interruppe Ludovico – se mi lascia parlare cercherò di spiegarle…».
Camillo abbassò il braccio con cui puntava l’indice a pochi centimetri dal naso di Ludovico, scrollò le spalle simulando disinteresse verso le parole dell’uomo, ma subito dopo gli sedette di fronte, prima guardando verso il basso, poi osservandolo negli occhi.
«Sono in grado di viaggiare nel tempo – cominciò a spiegare Ludovico – mi rendo conto che le risulterà difficile credere alle mie parole, ma mi ascolti in silenzio fino alla fine. Poi, se vorrà credermi, bene, altrimenti andrò via e amici come prima».
Camillo lo osservò senza neanche essere sbigottito, addirittura sorrise, annuì più volte per esortare lo sconosciuto a continuare.
«Ci sono dei luoghi sparsi nel mondo – proseguì Ludovico – dove in determinate circostanze, in determinati momenti, è possibile attraversare una finestra spazio temporale e trasferirsi da un tempo all’altro. Sì ha capito bene – disse di fronte allo stupore e l’incredulità di Camillo – anche da queste parti c’è uno di questi luoghi di passaggio.
Camillo abbassò lo sguardo, non aveva più voglia di stare a sentire Ludovico, ma era rassegnato, sapeva di non poterlo fermare, restò quindi inerte di fronte al soliloquio.
«Ha presente sotto il Belvedere in via Venezia – continuò Ludovico – se lei si avvia in direzione del Lungomare Cristoforo Colombo scendendo verso la città, contando sei panchine partendo dalla prima a semicerchio, la sesta, in verità sono due piccole panchine, una di fronte all’altra, ingrottate nello speco più profondo; guardandole, quella a destra, se lei osserva con attenzione nella grotta, partendo da sinistra verso destra, vedrà prima un volto umano, poi la testa e la proboscide di un elefante e infine quella di un gorilla. Sopra quella panchina, se sederà su quella panchina mentre infuria un temporale notturno, non ci sarà bisogno di fulmini globulari, dovrà solo sperare che cadano il più vicino possibile, dovrà rischiare, questo è vero, ma vedrà, man mano che i fulmini si avvicineranno dal mare, e il tempo che trascorrerà tra il bagliore del lampo e il fragore del tuono sarà sempre più breve, il suo corpo si farà sempre più diafano rarefacendosi proprio come il fulmine che dopo tanto dirompente barbaglio scompare nel buio».
Camillo che nel frattempo non aveva potuto fare a meno di alzare la testa e guardare Ludovico negli occhi, biascicò con un filo di voce:
«Ma… ma cosa mi sta raccontando? Io non credo ad alcuna delle sue sconclusionate parole».
Ludovico, come se Camillo non avesse parlato, proseguì:
«Dovrà rischiare, dovrà avere coraggio. Uno sventurato infatti, tanti anni fa, forse intorno agli anni cinquanta, aveva trovato riparo proprio dentro quella grotta. Il pover’uomo non desiderava nemmeno transitare da un tempo all’altro, non era a conoscenza del potere del luogo. Era lì soltanto per ripararsi dalla pioggia quando fu colpito da un fulmine che lo uccise. Fu ritrovato all’indomani morto stecchito».
   
   
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