INTERLUDIO
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INTERLUDIO (2016)
La storia si svolge a Trani, la mia città, e il pretesto mi ha permesso di descriverne alcuni luoghi caratteristici,
far annusare gli effluvi di alcune strade che sono “traverse di corso utilizzate per rivedere le processioni dall’inizio”;
ma il vero protagonista del romanzo è il tempo che trascorre inesorabile e ineluttabile. È la storia di un turista che,
all’uscita della stazione, chiede a un passante di indicargli la strada che conduce al centro storico di Trani, ma egli si
offre di accompagnarlo e, durante il tragitto, si avvale dell’inconsueta attenzione offertagli, per rivelare le sue angosce.
In realtà, il tranese, resosi subito conto dell’eccezionale disponibilità all’ascolto del viandante, qualità piuttosto rara
al giorno d’oggi, lo punta come una preda da non lasciarsi sfuggire e, infatti, inizia un soliloquio che si trasforma in una
cascata interminabile di parole. L’ oratore, per il lavoro che svolge, è spesso a contatto con i vecchi ad è costretto a
imbattersi in situazioni dolorose, di malattia, di sofferenza e di morte, ma anche di solitudine, ad esempio nella solitudine
dei vecchi abbandonati a loro stessi. È una persona empatica a tal punto che quotidianamente si domanda come possa essere in
grado di svolgere questo tipo di lavoro quasi sempre a contatto con la sofferenza. Comincia a ritenere che tutte quelle
situazioni che incontra potrebbero presto riguardarlo personalmente, ha la sensazione di essere anche lui prossimo alla
vecchiaia se non a una grave malattia. Cerca quindi di riflettere su quella condizione che fino a quel momento aveva
considerato estranea, osservandola sempre e soltanto come una faccenda che riguardasse solo i suoi pazienti. Si pone,
a un certo momento, un interrogativo, riflette su ciò che si prova nel trovarsi dall’altra parte, dalla loro parte.
Spesso, quando ci relazioniamo a un malato, al suo capezzale, a un vecchio, non consideriamo che si tratta di persone che
desiderano non essere malati, vecchi, soli e, come scrivo nel mio libro: “la loro mente è spesso sana, pulsa degli stessi
nostri desideri, i polmoni bramano l’aria luccicante dell’aurora, si ciberebbero dei baci delle badanti anziché dei loro
medicamenti”. Seneca, a tal proposito dice che: “la vecchiaia indica un'età stanca, ma non priva di forze”. Li releghiamo
alla loro condizione, come fossero esseri inanimati, condannati all’ineluttabilità della loro sorte senza considerare che
hanno gli stessi nostri desideri, i nostri stessi pensieri. Per Italo Svevo il distacco dalla vita è pagato con un senso
d’impotenza, quindi d’inettitudine e di malattia, cui è contrapposto il mito della volgare salute borghese. Essere malato,
come nel caso di Zeno, permette di assumere una prospettiva privilegiata dove l’ironia si unisce alla capacità di riflessione.
La riflessione più interessante la fa Nietzsche, dove il malato, in maniera tranquilla e terribile, può cogliere in pieno
la bellezza del mondo, perché ormai vive di attimi concessi e ogni attimo è autonomo, il tempo non scorre più per lui,
è finito. I malati, quindi, soprattutto quelli più gravi, quelli terminali, ci osservano da una posizione privilegiata,
dall’alto, da un distacco che deriva dall’essersi, loro malgrado, liberati dal dover realizzare nuovi, futili obiettivi.
È scorretto relazionarsi alla malattia o alla vecchiaia di una persona piuttosto che alla persona che abbia contratto quel
male o quella condizione di vecchiaia.
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LETTURE
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Rino Negrogno |
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IL DOLORE
Mi perdoni se l’ho trascurata in questi ultimi minuti. Detesto quando il mio
accompagnatore interrompe la conversazione per rispondere al telefono e sono
certo che lei mi abbia detestato in egual misura, lo intendevo dalla sua
espressione cortese. Un mio amico, tale appellativo meriterebbe quando abbisogna
di una certa benevolenza, spezzando poc’anzi le nostre digressioni, mi chiedeva,
con irrefutabile insistenza, di recarmi al suo capezzale. Lamenta un’addominalgia
insostenibile e desidererebbe un medicamento che allevi questo spasimo. Se non le
dispiace e se non s’impressiona alla vista degli aghi, potrà accompagnarmi, non è
lontano da qui, le mostrerò come sono riconoscenti gli amici e come il dolore non
si possa mai suddividere in parti eguali. Ha notato, mio comprensivo assistente,
quante parole si pronunciano in prossimità delle sciagure? Ha saputo della nave
carica di migranti, affondata al largo di Lampedusa? Fiumi di parole, pressappoco
ingiuste, che si riversano in quel mare vigliacco; non possono che preludere l’alta
marea del crepuscolo. Servirà poco ai cadaveri, che galleggiano come uno stuolo di
gabbiani, capire quali parole siano convenienti per la sepoltura. I morti enfieranno
le loro narici di vento e rabbia più per le parole di sconforto che per quelle
contro le loro invasioni. Sebbene loro, ormai, non abbiano più bisogno di osservare
le movenze per sapere se le parole di cordoglio siano sincere, servirà più la
coerenza di quelli che li biasimano quando, sopravvissuti, questuano davanti alle
vetrine. Siamo arrivati dal mio bisognevole amico. È conveniente far uso
dell’ascensore giacché egli dimora al quinto piano. Prego, entri senza indugio.
L’ascensore è il luogo adeguato per riflettere. Le sarà sicuramente capitato di
trovarsene in compagnia di sconosciuti imbarazzati per l’inaspettata presenza.
Sembrano intellettuali onnivori, interessati a tutto quel che è scritto; leggono
avidamente la targhetta nera descrittiva del numero massimo di persone e dei chili
trasportabili, poi scrutano sopraffatti la lunghezza delle unghie della mano
sinistra, poi quella destra. Potrebbero invece pensare, i pensieri sono contagiosi,
mi creda. Che impressione le ha fatto il mio amico? Intendo che non desidera
esprimersi. Il suo dolore era superiore a quello di qualunque altro essere umano.
Tra le tante parole pronunciate sui morti annegati, sulla loro speranza di salvarsi,
sulla loro scelta tra il morire di guerra, di fame o rischiare di morire annegati,
c’è una riflessione che mi tormenta: quando accompagno mio figlio in piscina, lei
obietterà che è un lusso, ma il pediatra mi ha persuaso che sia un valido sostegno
per una crescita sana, ho rinunciato a fumare per questo, guardo mio figlio nuotare
nei vari stili illustrati con smaccata convinzione dall’abile istruttore. Non
immaginavo ve ne fossero così tanti. Lei ormai è abituato alle mie digressioni,
dal suo ghigno è lampante. Penso al dolore di una madre e di un padre che dopo aver
salvato con enormi sacrifici, più di quelli che facciamo noi affranti, i figli dalla
fame e dalla guerra, quando credevano di potercela fare, si ritrovano sotto una
barca rivoltata. Provi a immaginare lo smarrimento e l’angoscia. Il padre guarda
il figlio mentre annega, si sforza per tentare di salvarlo, annaspa, si volta per
un attimo, c’è anche la compagna già sommersa dalle onde, prova a raggiungerla
disperato, ma gli sfugge la mano del figlio, torna indietro, s’immerge per
afferrarlo, ci riesce, ma non è più in grado di risalire, la fatica e il freddo
induriscono i muscoli, e il cuore batte troppo rapidamente per ragionare. Intravede
la compagna inabissarsi, il figlio ha gli occhi sbarrati e la bocca spalancata, la
sua vista fievole, un’ultima stretta della mano, poi si spegne. Un dolore
indivisibile, incommensurabile. Come trovare le parole appropriate per spiegarlo
al mio amico?
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Axel Pipulo |
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I FUOCHI D'ARTIFICIO
Questo è palazzo Palumbo, una residenza signorile prospiciente il porto, costruita
nel 1755. Vi hanno soggiornato personaggi illustri, tra gli altri, anche Re Giuseppe
Bonaparte, recatosi qui per una breve villeggiatura nel 1807. Diversi anni fa,
in quel sottano, il secondo partendo da sinistra, vi abitava un vecchietto singolare.
Egli amava, dopo cena, starsene seduto sull'uscio della sua bicocca a osservare
l’andirivieni, consuetudine che ancor più apprezzava nei giorni di festa. Non mi
crederà, ma da noi c’è gente che si reca qui solo in occasione dei festeggiamenti
in onore del santo patrono. Ha mai assistito a certe solennità? Sono fuori dal tempo,
sempre uguali, leggende che sopravvivono solo per la folla, invasioni d’altri secoli,
tappezzate di manifesti lunghi tre metri che descrivono imperterriti le stesse cose
dell’anno precedente, ma, i cittadini, di nuovo con la testa all'insù, li rileggono
incuriositi come la prima volta, se c’è mai stata. La banda musicale marcia per le
strade, tuonano all’alba ventuno colpi fantasma, le campane annunciano la
reiterazione, brulicano le bancarelle dei ragazzi di colore con i loro denti nivei,
sicuramente perché poco adoperati; si attende, trepidanti, il rito della vigilessa
Pina che sbraita per le concessioni degli spazi per le bancarelle, gli stranieri
studiano, attoniti, il folklore misto al sudore e alla fame, gli immigrati sdraiati
nelle loro tende da campeggio. È inguardabile la loro tristezza, mi creda, della
loro terra lontana, della loro madre abbandonata. Inizia la sagra del mare e le
vecchiette commosse ringraziano Dio perché ha concesso loro un altro anno per
ritrovarsi in ginocchio dinanzi al Santo, mentre i vecchietti, seduti sul muretto,
brandiscono la tesa; la processione passa sommessa, l'odore dell'incenso ghermisce
il mio passato, trascinandomi nelle domeniche mattine di mia madre che mi obbligava
a recarmi in chiesa per la messa; i fuochi d’artificio irrompono e gli applausi
scrosciano. Come le dicevo, diversi uomini accompagnano le loro mogli a spasso,
soltanto in queste occasioni e, per non camminare troppo, si fermano a quelle
bancarelle dove, solerti, gli imbonitori dimostrano come si deterga perfettamente
il pavimento o si mondino geometricamente le patate. Restano immobili come
innamorati, con gli occhi sgranati per tutto lo sproloquio dell'avvincente promotore
e, quando egli termina, il marito, suadente, come se stesse per dichiarare il suo
eterno amore, la voce serafica e un braccio preservatore che cinge la spalla,
bisbiglia: «Amore lo vuoi?». I giovincelli, invece, per nulla allettati, passano
irriverenti, con un'insolenza che esprime il loro rispetto congenito, la loro
devozione sospesa e una bevanda alcolica tra le mani. Perdoni le mie irrinunciabili
digressioni. Per quel vecchietto sulle scale sotto palazzo Palumbo, le raccontavo,
luglio e agosto erano mesi pieni di vita e di colori, mesi che agognava trepidamente
in quelli foschi e freddi d'inverno, sebbene si avvedesse che quest’ansia accelerasse
la sua vita. Egli, un po' per la sua saggezza, ma soprattutto perché a cena non
disdegnava quei due o tre bicchieri di vino, quello del suo compare contadino, che
tinge il bicchiere di sentori violacei, dopo pochi minuti si addormentava sulla
sedia intonando sonanti russate. Era anche sordo, più di me, infatti, neanche i
fuochi d'artificio riuscivano a destarlo, tranne l'ultimo colpo, quello che chiudeva
lo spettacolo pirotecnico e ogni volta, ogni anno, si svegliava di soprassalto ed
esclamava: «Sono cominciati i fuochi – poi, perplesso perché non vi era seguito a
quello che per lui era il primo colpo, prima di rimettersi a dormire disapprovava
– questo è tutto? I soldi che ho donato per la festa? Li hanno intascati quei
farabutti dei confratelli, l’anno prossimo non elargirò un solo centesimo».
Così accadeva tutti gli anni.
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Mio padre con Milva |
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EPPURE MIO PADRE
Eppure mio padre, che aveva i suoi grattacapi, un lavoro non gradito, con un camice
lungo fin sulle caviglie al posto di una Rolleiflex con cui aveva fotografato persino
Milva alla Lampara, una scommessa persa alla bazzica e una moglie cattolica
praticante, una cugina invadente a cui non avevano spiegato nulla del genotipo e
dell’eredità autosomica recessiva e a lui, del resto, poco interessava, ammaliato
dalla fulva chioma e dall’accento goffamente milanese; eppure mio padre, che era
come quelli che abitano in un sottano a piazza Teatro, quando ancora il teatro
c’era e, nonostante l’avessero già bombardato, lui era caduto prima del monumento,
mentre impavido tentava l’impresa di scavalcare il cancello del San Ferdinando;
aveva praticato quel foro nel muro, lì sotto l’arco, che ancora sovrasta la movida
sebbene nessuno lo sappia, glielo giuro è ancora lì, osservi; eppure mio padre aveva
acquistato una cameretta per bambini nuova, d’occasione, per sostituire una mobilia
da tempo adattata alle nostre esigue esigenze, senza senso, che più di una volta
aveva ceduto alle nostre arrampicate per raggiungere i giochi dismessi, nostro
malgrado e senza una valida ragione; l’aveva acquistata a rate che sono durate
un’eternità e mia madre ancora le ricorda; eppure mio padre, che ora è morto e
sepolto nell’angolo di una cappella, all’esterno, all’aria aperta come desiderava,
perché così avrebbe potuto continuare a fumare senza che nessuno lo importunasse,
in un loculo di fortuna, perché non ci avevamo pensato prudentemente prima, senza
fiori, perché non mi salta in mente ora di offrirgli dei fiori; solo una volta mi
chiese cosa ne pensassi delle sue congetture pressoché silenziose ed io, prontamente,
non gli fornii spiegazioni, ma solo perché, con un evidente imbarazzo, ancora le
sto architettando; eppure mio padre… la prego, caro amico di fortuna, mi faccia
ancora compagnia, accenda un San Cristobal de la Habana, mi faccia la cortesia,
le offro del Guayabita del Pinar Seca, si lasci trasportare dal crepuscolo che
ancora lascia intravedere sfumature pervinca e smeraldo, ma non mi chieda di
proseguire. Quella cameretta per bambini sprovveduti è ancora lì dov’era,
scarnificata, vi gironzolano impuniti i miei fantasmi e le schegge dei soprammobili
riparati in fretta e furia, che inspiegabilmente profuma di legno appena segato;
e alla “Vittoria Grande”, l’acqua torbida nei giorni della pesca tra le tane, ci
attardò più del dovuto, ora ne possiamo parlare da qui, questa veduta non attende
altro, da “Il vecchio e il mare”, tra le ragazze che profumano di nespole non ancora
ammezzite, non mi lasci proseguire, si limiti a compiacersene. Una persona che
conosco vive di un padre morto e questo padre è più vivo ora di prima che perisse.
Un padre con diverse mancanze, di quelli che un figlio avrebbe infinite ragioni
per detestarlo, ma uno psicologo avveduto, figlio di quel padre, troverebbe una
spiegazione plausibile a ogni sua incongruenza. Questa figlia, sebbene non fosse
addentrata, aveva partorito un padre nuovo, il giorno stesso in cui gli era morto,
e lui, dalla morte, poteva trarne il vantaggio del perdono, di non doversi
giustificare né pentire, bastava l’assenza ad assolvere quelle premure. Andava
sentendosi laudare benevolo, premuroso e persino loquace. Tanto loquace che avevano
cominciato a parlottare, cosa piuttosto inconsueta, di tutte quelle faccende cui,
per pudore, non avevano mai fatto cenno. Il fatto sorprendente è che il dissenso
era un atto d’amore e, nel dissentire, entrambi avrebbero dispensato sguardi di
comprensione. Era morto da un pezzo, non si meravigli, nessuno se lo sarebbe
aspettato, ma, di tanto in tanto, in sogno, sparviero, riappariva con la pelle tesa,
strafottente e un borsello a tracolla, una pettinatura che gli concedeva il diritto
di commettere quegli errori imperdonabili, ma poi si riparava nella consuetudine
di dissolversi tra la rugiada e quelle erano lacrime d’interruzione, di parole
impronunciabili, ormai inveterate, così come i nostri passi che già non si possono
ritrovare. Di questo passo siamo giunti alla sua locanda.
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Mia madre ed io |
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MIA MADRE
Mi perdoni per il ritardo, ho accompagnato mia madre dal medico; sebbene avessimo
opportunamente ritenuto di recarci all’ambulatorio fin dal dilucolo, vi erano già
diversi mutuati in coda. Le dirò, mia madre ha delle certezze imperscrutabili che
restano in silenzio e ti scrutano inflessibili, persino in coda; invecchia senza
che il tempo si possa fermare e mi chiedo cosa provi nel constatare che i figli
siano gravati da più anni di quelli che aveva lei quando eravamo bambini. Stanotte
mio figlio ha dormito con noi nel lettone; aveva la testa sull’addome di mia moglie
e i piedi sulla mia faccia; lei ha ragione, in effetti io non mi sarei mai sognato
di dormire con i piedi in faccia a mio padre, di non alzarmi in piedi quando
entrasse la maestra o di non porgere le mani per le sue bacchettate; il prete
m’incuteva timore come il carabiniere che, ancora adesso, quando intima di fermarmi
al posto di blocco, mi fa sentire un farabutto titubante sebbene non lo sia; ma
al diavolo i piedi in faccia a mio padre, vorrei starmene sempre in questa
posizione, sentirmi giustamente con la coscienza a posto, non avere dubbi sul
libretto nel cruscotto e non avere avuto il terrore di non ricordare l’atto di
dolore nel confessionale. Mia madre, le dicevo, caro paziente amico, è certamente
responsabile delle mie paure e non solo lei, c’è qualcun altro parimenti
responsabile; ma lei ha dovuto, come la maggior parte delle mogli, sopportare le
angherie di mio padre che era un gran lavoratore e, tutt’oggi, non mancano i suoi
colleghi pensionati di ricordarmelo. Mia madre, tutto sommato, non ha colpe
precise, come gli assassini e i ladri che non sanno fare altro con la stessa
abilità, non ha colpe per le sue involontarie mancanze, peraltro ha dovuto lavorare
in un maglificio e, contemporaneamente, lavare pavimenti con prodotti adeguati e
spolverare mobili acquistati a rate; figlia di un uomo con un braccio amputato
in guerra e morto quando aveva dodici anni, sorella di altri cinque, senza soldi
per studiare; ora invece può starsene distesa sul divano a leggere libri, e quanti
ne legge, persino di filosofia; può recarsi a messa la domenica senza sentirsi in
colpa, sin dalla recita del rosario; fa scivolare con sicumera le perle tra le
dita, conosce a menadito i salmi e le preghiere, bisbiglia i canti per pudore, ma
sa anche della malvagità dei mariti che si aggirano pentiti negli ambulacri,
risparmiati dalle malattie che sopraggiungono dopo la pensione, osserva circospetta
le incongruenze delle loro mogli che ora finalmente sono da questi accompagnati e
si mostrano persino appagate durante la spesa del sabato. Mia madre, nonostante i
betabloccanti, s’inginocchia con gran protervia durante l’elevazione, come se Dio,
con la storia dell’artrosi, non la impensierisse; è una delle poche cosa che finge
di riuscire ancora a fare; ha una certezza in più di me e si meriterebbe un
figliuol prodigo che profumasse d’incenso e avesse la sapienza di una lettera
ai Tessalonicesi, sembra non aspettarsi altro; ma mia madre lo sa, finché vivrà,
nessuno potrà convincerla del contrario e io non riuscirò a convincermi similmente.
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Acquista
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Rino Negrogno Scrittore Trani Interludio Controra Miracolo Codice Rosso Pandemos Monatto Inconsistenza Giorni
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