Rino
Negrogno
Interludio
Sinossi
La storia si svolge a Trani, la mia
città, e il pretesto mi ha permesso di descriverne alcuni luoghi caratteristici,
far annusare gli effluvi di alcune strade che sono “traverse di corso
utilizzate per rivedere le processioni dall’inizio”; ma il vero protagonista
del romanzo è il tempo che trascorre inesorabile e ineluttabile. È la storia di
un turista che, all’uscita della stazione, chiede a un passante di indicargli
la strada che conduce al centro storico di Trani, ma egli si offre di
accompagnarlo e, durante il tragitto, si avvale dell’inconsueta attenzione
offertagli, per rivelare le sue angosce. In realtà, il tranese, resosi subito
conto dell’eccezionale disponibilità all’ascolto del viandante, qualità
piuttosto rara al giorno d’oggi, lo punta come una preda da non lasciarsi
sfuggire e, infatti, inizia un soliloquio che si trasforma in una cascata interminabile
di parole. L’ oratore, per il lavoro che svolge, è spesso a contatto con i
vecchi ad è costretto a imbattersi in situazioni dolorose, di malattia, di
sofferenza e di morte, ma anche di solitudine, ad esempio nella solitudine dei
vecchi abbandonati a loro stessi. È una persona empatica a tal punto che
quotidianamente si domanda come possa essere in grado di svolgere questo tipo
di lavoro quasi sempre a contatto con la sofferenza. Comincia a ritenere che
tutte quelle situazioni che incontra potrebbero presto riguardarlo
personalmente, ha la sensazione di essere anche lui prossimo alla vecchiaia se
non a una grave malattia. Cerca
quindi di riflettere su quella condizione che fino a quel momento aveva
considerato estranea, osservandola sempre e soltanto come una faccenda che
riguardasse solo i suoi pazienti. Si pone, a un certo momento, un
interrogativo, riflette su ciò che si prova nel trovarsi dall’altra parte,
dalla loro parte. Spesso, quando ci relazioniamo a un malato, al suo capezzale,
a un vecchio, non consideriamo che si tratta di persone che desiderano non
essere malati, vecchi, soli e, come scrivo nel mio libro: “la loro mente è
spesso sana, pulsa degli stessi nostri desideri, i polmoni bramano l’aria
luccicante dell’aurora, si ciberebbero dei baci delle badanti anziché dei loro
medicamenti”. Seneca, a tal proposito dice che: “la vecchiaia indica un'età
stanca, ma non priva di forze”. Li releghiamo alla loro condizione, come
fossero esseri inanimati, condannati all’ineluttabilità della loro sorte senza
considerare che hanno gli stessi nostri desideri, i nostri stessi pensieri. Per
Italo Svevo il distacco dalla vita è pagato con un senso d’impotenza, quindi
d’inettitudine e di malattia, cui è contrapposto il mito della volgare salute
borghese. Essere malato, come nel caso di Zeno, permette di assumere una
prospettiva privilegiata dove l’ironia si unisce alla capacità di riflessione.
La riflessione più interessante la fa Nietzsche, dove il malato, in maniera
tranquilla e terribile, può cogliere in pieno la bellezza del mondo, perché
ormai vive di attimi concessi e ogni attimo è autonomo, il tempo non scorre più
per lui, è finito. I malati, quindi, soprattutto quelli più gravi, quelli
terminali, ci osservano da una posizione privilegiata, dall’alto, da un
distacco che deriva dall’essersi, loro malgrado, liberati dal dover realizzare
nuovi, futili obiettivi. È scorretto relazionarsi alla malattia o alla
vecchiaia di una persona piuttosto che alla persona che abbia contratto quel
male o quella condizione di vecchiaia.
Recensioni
Rossella De Palma – Letteratu
La solitudine ha i suoi pregi.
“Al
crepuscolo le famiglie si ritrovano sull’uscio dei sottani sopravvissuti, per raccontarsi,
senza darci peso, le litanie familiari. M’interrompa se per lei non è insolita,
su quel basamento levigato, la sedia sgangherata del contadino, con la
maggiorana e le olive nere, davanti all’unica stanza attorno al desco”.
“Interludio” è il primo romanzo del tranese Rino Negrogno. È infermiere
professionista e volontario della Protezione Civile ma chi ha la fortuna di
conoscerlo davvero sa che è uno scrittore senza sconti. Appassionato di
politica, appassionato di città, amante dell’intima essenza dei suoi simili. Il
suo primo romanzo “indipendente” è la storia di un turista che è appena giunto
a Trani e, fuori dalla stazione ferroviaria, chiede a un passante di indicargli
la strada che conduce al centro storico. Il passante si offre di accompagnarlo
e, durante il tragitto, approfitta dell’insolita attenzione, per rivelargli le
sue angosce. Questa è la trama, quella che tutti hanno raccontato, quella che
un lettore poco attento coglie. Ma in realtà il romanzo non è altro che il
risultato di anni di vita passata a camminare per le strade della città, tra i
vicoli assolati e sconosciuti, tra le “malanime”
della città vecchia e gli apparenti borghesi di quella nuova. È il manifesto di
una città dimenticata e dei suoi figli abbandonati. Una realtà che l’autore non
dimentica perché ne ha colto l’intima essenza. C’è un timbro in questo romanzo
che vive di un risentimento umano originale e forte, che nasce dal rifiuto di
una contemporaneità osannata e forse troppo vissuta nei suoi aspetti più
carnali, poco intimistici. Una coscienza
nuova e profonda, inconsapevole e viva. Questo romanzo evoca stati e realtà
concretamente vissute e attraversate, e racconta l’effetto che sortisce
nell’animo della mano che scrive, creando un’infinita trama di relazioni e connessioni.
Non mere descrizioni ma tentativi di penetrare la realtà, quella che appare
materialmente, quella che si perde con lo sfocare del ricordo per coglierne
l’essenza ultima e più vitale. L’impressione è che questa storia sia stata
scritta in un meriggio ideale quando il sole a picco dissecca ogni cosa, il
momento in cui la vita si sgretola e l’anima si rompe e la parola sfocia
naturalmente e senza freni. Il momento dannunziano in cui si rompe il velo di
Maya, di schopenhaueriana memoria, quando la realtà e l’apparenza coincidono
nella perfezione dell’attimo. Pochi gli uomini forse in grado di comprendere il
sentimento più vero di un’esistenza che sembra quasi non avere più senso e Rino
Negrogno è senza dubbio uno di questi. Sono solo pochi momenti in cui all’uomo
è dato di cogliere, quasi come nelle illuminazioni montaliane, il vero
significato dell’esistenza. Ma è la finitudine del ricordo che penetra il
romanzo, memoria minacciata dall’inesorabilità del tempo che trasforma le cose,
dalla devastazione operata dal tempo stesso e dalla necessità di fissare nelle
pagine il senso delle cose, della vita. “Ci sono certi luoghi a Trani,
immobili, senza tempo, quasi incontaminati, con la grazia e la lentezza dei
vecchi e del sole che accarezza cesti in vimini sugli sgabelli. Via Fiume, via
de Brado, via Sasso, sembrano vicoli, traverse di corsi, scorciatoie usate per
rivedere le processioni dall’inizio, zigzagate per arrivare prima. Sono ricordi
dove esistono ancora i sottani con le sedie per strada, per sedersi in cerchio,
con l’odore del bucato, spalancati per arieggiare i materassi riempiti con la
lana lavata alla fine dell’estate, prima di fare la salsa, poi asciugata al
sole e pizzicata con le mani per ammorbidirla. Dove esistono le vecchie, dietro
la tenda, con in mano qualcosa da rammendare, che ti guardano vispe, più forti
dei loro uomini forti, ormai diventati fotografie sul comodino spoglio”.
Giovanni Ronco - TraniViva
Esordio letterario
di tutto rispetto per il nostro concittadino Rino Negrogno. Infermiere barbuto
e artista, con il debole per la scrittura. Il suo primo romanzo è una
sorprendente performance di scrittura che s'innesta su tre rami: il personaggio
principale, un tranese, verosimilmente l'autore stesso; il suo interlocutore,
un viaggiatore, un turista giunto nella nostra città e bisognoso di guida e
dritte per scoprirne la bellezza ed i tratti nascosti, nei confronti del quale
il protagonista si offrirà come Cicerone; ed infine, terzo anello d'una
declinazione narrativa di grande effetto, anche se a volte troppo
"specchiata" nell'eleganza retorica, con termini di estrema
ricercatezza (troppa per un dialogo tra due persone comuni), l'epopea ed il
"teatro mentale" dei ricordi d'infanzia e di giovinezza, dei
personaggi caratteristici o tragici, dei luoghi della memoria e delle
rimembranze dell'autore, trasmesse, tra un'indicazione e l'altra, al turista
"spugna": un interlocutore "passivo" che serve da
"spalla" al protagonista e che non rivela la sua identità, pur
ricordandogli sempre qualcuno con cui ha avuto familiarità. Il racconto della
vita e dei ricordi si snoda dunque al cospetto del turista, con le
elucubrazioni più profonde ed anche a volte disperate, il sorriso sereno sulle
debolezze della sua città, ma anche l'attenzione per problemi sociali come la
coesistenza tra rom o extracomunitari e gente del posto. Emblematico a tal
proposito il passaggio sui "vecchi luridi" che abusano sessualmente
delle zingarelle in piazza della Repubblica, infilando la mano grinza nella
maglietta della malcapitata per dare sfogo ai propri bassi istinti (fatto
realmente accaduto e denunciato dallo stesso autore in diversi suoi
interventi). Il romanzo breve di Rino non disdegna riflessioni e ricordi legati
al suo rapporto col sacro (ricorda una confessione fatta dopo 20 anni di
lontananza dal sacramento che non colmò pienamente quel bisogno mistico). Un'
"esigenza" che di tanto in tanto, spesso e volentieri, emerge nel
racconto, anche attraverso meditazioni, bisogno di silenzio, attenzione per i
disperati della Terra e per le loro sofferenze (diversi i personaggi richiamati
in tal senso nella "galleria" presentata da Negrogno, tra
un'indicazione ed una meditazione); un po' come il Caracas di "Napoli
Ferrovia" di Ermanno Rea. Interludio ci lascia con una grande ombra
finale, che in verità pervade tutto l'arco della narrazione: la categoria
implacabile del tempo che passa, con tutti gli annessi e connessi, positivi e
negativi, che subentrano nell'arco esistenziale, vedi la bellezza dei dolci
ricordi, ma anche le sofferenze portate dallo scorrere di quella divinità laica
riconosciuta dall'autore (Crono, il Tempo). E l'ombra, o la liberazione più
grande, il grande simbolo di questo mostro, il Tempo, la sua sacerdotessa
spietata, sembra essere la vecchiaia. Un tema che suggeriamo all'autore per uno
dei suoi prossimi romanzi. Ci ha informato di essere già alle prese col
secondo.
Roberto Lodi
Con un eloquio dotto, l’autore ci immerge in un
impianto descrittivo complesso, un lungo monologo introspettivo che affronta
con eterogeneo stile, tra narrativa e poesia. Osserva il mondo che lo circonda
con occhi disincantati, attenti e dolenti, descrive con minuziose analisi le
molte problematiche dell’esistere, una disquisizione precisa dei luoghi e
dell’intera umanità, amici, nemici, malati e moribondi. Un passato a volte
struggente, un presente pieno di incognite, e prospettive future forse inevase.
Osserva i sofferenti che non diventeranno mai vecchi e non avranno” i volti
scolpiti di Cèzanne.” L’autore crea un personaggio e
s’incarica di guidarlo nell’esplorazione della città, espediente che gli
permette il lungo viaggio alla conoscenza di sé. Nel cammino incontra altri
personaggi sofferenti, e ne descrive con precisione il percorso, tra dolore,
aspettative e speranze. Un soliloquio, che apre le porte a una profonda
riflessione sulla vita e la vecchiaia che incombe, la percepisce ogni giorno,
nel lento mutamento che inesorabilmente lo traghetterà dalla fulgida
giovinezza, alla greve realtà di un prossimo futuro. Non giunge improvvisa, si
presenta con subdola lentezza, solo piccoli segni premonitori, una metamorfosi
che ci rapisce con indolenza. Infine la morte, che l’autore incontra sovente
nel suo lavoro di assistente umanitario. Colei che si avvicina silenziosa,
“esitante e sommessa, poi maestra e infine sposa”. Ho affrontato la lettura con
attenzione e lentezza, assaporando il sottile piacere della parola e la forma
non comune, come deve essere l’approccio al malinconico scritto che non mi
riesce definire romanzo, semmai un poema dell’esistenza umana. Complimenti
all’autore.
Aldo Chiummo
L'esordio narrativo di Rino
Negrogno è un'opera difficilmente catalogabile. Troppo breve per essere un
romanzo, troppo lunga per essere un racconto, troppo poco ammiccante e
"scorrevole" per poter puntare al pubblico dei lettori
"medi", sempre più distratti e orientati nei loro gusti dalle mode
del momento. "Interludio" rompe praticamente tutti gli schemi della
narrativa "commerciale", ma consegna, a chi decide di avventurarsi
tra le sue ostiche pagine, una lunga serie di interessanti, malinconiche,
spesso amare riflessioni sulla vita e sullo scorrere del tempo mascherate da
quadretti di quotidianità tranese contemporanea e passata, dipinti per un tanto
misterioso quanto muto e propenso all'ascolto "viandante" che il
protagonista, facilmente identificabile con l'autore stesso, accompagna per le
vie della città in un surreale giro turistico. Quella che al principio può
sembrare una stramba autobiografia romanzata o un peculiare racconto di viaggio
ben presto inizia ad assumere contorni quasi angoscianti, man mano cioè che
diviene chiara la causa scatenante di tanta loquela da parte del nostro
cicerone: un sopraggiunto sentore di "vecchiaia" incipiente che lo
stesso avverte l'urgenza quasi fisiologica di condividere con qualcuno (il
"viandante" e i lettori), nell'apparentemente conscio tentativo di
stemperarlo; e lo stile "arcaico", quasi barocco e a tratti criptico
della scrittura non fa che sottolineare il senso di "antichità" e di
"saggezza" (che l'autore/protagonista ha acquisito negli anni,
costretto dal suo lavoro di soccorritore e infermiere ad esplorare
quotidianamente l'umanità fin dentro i suoi anfratti più bui) che pervade
soprattutto l'ultima metà del racconto, piuttosto che simboleggiare, come si
potrebbe erroneamente dedurre dai suoi scritti quotidiani, una sorta di
altezzosa presa di distanza dai propri concittadini contemporanei, che dei
tranesi di un tempo conservano solo il sangue e la "parlata". Ma
Trani di questo romanzo è soltanto la cornice, lo sfondo. In primo piano sulla
tela c'è il mondo interiore di Rino Negrogno, Virgilio ma anche (vian)Dante nel cammino attraverso l'Inferno e il Purgatorio
della vita, col suo sguardo a tratti romantico, a tratti cinico e disincantato,
alla ricerca di una medicina che combatta e possibilmente sconfigga
l'inquietudine portata da un "interludio" giunto troppo presto e
inaspettato.
Oliva Novello – Talent scout
Libro impegnativo, non sempre
facile a leggersi, per il tema e per la tecnica di narrazione scelta
dall’autore. Il romanzo è scritto come
un monologo teatrale, durante la lettura è come se si sentisse una voce
recitare quei passi, che sono divisi in atti e quegli atti in quadri.
Supponiamo che anche Rino Negrogno con la scelta del titolo, Interludio,
pensasse proprio a questa struttura, oltre ad indicare l’intervallo di tempo
che ci è dato di vivere. Il protagonista svolge la stessa professione
dell’autore, cioè persona che si occupa di emergenze ed urgenze, quindi sempre
a contatto con la sofferenza e le riflessioni sulla vita che essa
inevitabilmente comporta. Dopo queste considerazioni viene facile pensare che
molto ci sia di autobiografico in questo romanzo breve, immaginiamo che il
continuo contatto con la malattia e gli ammalati, abbia suggerito l’idea di
fondo. Nel romanzo vi è, come abbiamo detto, un solo protagonista che si
incarica di guidare un turista capitato per caso a Trani (luogo di residenza dello
scrittore); e attraverso la descrizione del protagonista conosciamo altre
figure, sorta ormai di ectoplasmi. Il testo è scritto con un registro alto, la
lingua è dotta, si potrebbe dire che a volte c’è il rischio di incorrere
nell’affettazione, nel bizantinismo, se viene letto con fretta. Il contenuto,
invece, ha bisogno di una lettura meditata: il protagonista nel suo soliloquio
germina continui percorsi che si diramano a volte in riflessioni, altri in
descrizioni di paesaggi, di vite, di situazioni ma anche di espressione di
valori umani e civili. La ricerca lessicale è una nota dominante nell’analisi
di questo testo; non ci si può non interrogare sulla scelta dell’autore di
adottare un linguaggio così ricercato, questo preziosismo formale; e la prima considerazione
che ne nasce è che gli serva da contrappunto tra la grandiosità di una mente
che è nel pieno delle sue possibilità e la vecchiaia che sta per arrivare e che
si scorge già, compagna di sordità, di difetti visivi, di perdita di memoria,
di oscuri presagi… Sicuramente è stata opera impegnativa per il nostro
romanziere che merita tutto il nostro apprezzamento e a cui auguriamo venga
data attenzione particolare per questo libro che si caratterizza come genere e
come scrittura. A Rino Negrogno i più vivi complimenti!
Letture
Mi perdoni se l’ho trascurata in questi ultimi
minuti. Detesto quando il mio accompagnatore interrompe la conversazione per
rispondere al telefono e sono certo che lei mi abbia detestato in egual misura,
lo intendevo dalla sua espressione cortese. Un mio amico, tale appellativo
meriterebbe quando abbisogna di una certa benevolenza, spezzando poc’anzi le
nostre digressioni, mi chiedeva, con irrefutabile insistenza, di recarmi al suo
capezzale. Lamenta un’addominalgia insostenibile e desidererebbe un medicamento
che allevi questo spasimo. Se non le dispiace e se non s’impressiona alla vista
degli aghi, potrà accompagnarmi, non è lontano da qui, le mostrerò come sono
riconoscenti gli amici e come il dolore non si possa mai suddividere in parti
eguali. Ha notato, mio comprensivo assistente, quante parole si pronunciano in
prossimità delle sciagure? Ha saputo della nave carica di migranti, affondata
al largo di Lampedusa? Fiumi di parole, pressappoco ingiuste, che si riversano
in quel mare vigliacco; non possono che preludere l’alta marea del crepuscolo.
Servirà poco ai cadaveri, che galleggiano come uno stuolo di gabbiani, capire
quali parole siano convenienti per la sepoltura. I morti enfieranno le loro
narici di vento e rabbia più per le parole di sconforto che per quelle contro
le loro invasioni. Sebbene loro, ormai, non abbiano più bisogno di osservare le
movenze per sapere se le parole di cordoglio siano sincere, servirà più la
coerenza di quelli che li biasimano quando, sopravvissuti, questuano davanti
alle vetrine. Siamo arrivati dal mio bisognevole amico. È conveniente far uso
dell’ascensore giacché egli dimora al quinto piano. Prego, entri senza indugio.
L’ascensore è il luogo adeguato per riflettere. Le sarà sicuramente capitato di
trovarsene in compagnia di sconosciuti imbarazzati per l’inaspettata presenza.
Sembrano intellettuali onnivori, interessati a tutto quel che è scritto; leggono
avidamente la targhetta nera descrittiva del numero massimo di persone e dei
chili trasportabili, poi scrutano sopraffatti la lunghezza delle unghie della
mano sinistra, poi quella destra. Potrebbero invece pensare, i pensieri sono
contagiosi, mi creda. Che impressione le ha fatto il mio amico? Intendo che non
desidera esprimersi. Il suo dolore era superiore a quello di qualunque altro
essere umano. Tra le tante parole pronunciate sui morti annegati, sulla loro
speranza di salvarsi, sulla loro scelta tra il morire di guerra, di fame o
rischiare di morire annegati, c’è una riflessione che mi tormenta: quando
accompagno mio figlio in piscina, lei obietterà che è un lusso, ma il pediatra
mi ha persuaso che sia un valido sostegno per una crescita sana, ho rinunciato
a fumare per questo, guardo mio figlio nuotare nei vari stili illustrati con
smaccata convinzione dall’abile istruttore. Non immaginavo ve ne fossero così
tanti. Lei ormai è abituato alle mie digressioni, dal suo ghigno è lampante.
Penso al dolore di una madre e di un padre che dopo aver salvato con enormi
sacrifici, più di quelli che facciamo noi affranti, i figli dalla fame e dalla
guerra, quando credevano di potercela fare, si ritrovano sotto una barca
rivoltata. Provi a immaginare lo smarrimento e l’angoscia. Il padre guarda il
figlio mentre annega, si sforza per tentare di salvarlo, annaspa, si volta per
un attimo, c’è anche la compagna già sommersa dalle onde, prova a raggiungerla
disperato, ma gli sfugge la mano del figlio, torna indietro, s’immerge per
afferrarlo, ci riesce, ma non è più in grado di risalire, la fatica e il freddo
induriscono i muscoli, e il cuore batte troppo rapidamente per ragionare.
Intravede la compagna inabissarsi, il figlio ha gli occhi sbarrati e la bocca
spalancata, la sua vista fievole, un’ultima stretta della mano, poi si spegne.
Un dolore indivisibile, incommensurabile. Come trovare le parole appropriate
per spiegarlo al mio amico?
Questo è palazzo Palumbo, una residenza signorile
prospiciente il porto, costruita nel 1755. Vi hanno soggiornato personaggi
illustri, tra gli altri, anche Re Giuseppe Bonaparte, recatosi qui per una
breve villeggiatura nel 1807. Diversi anni fa, in quel sottano, il secondo
partendo da sinistra, vi abitava un vecchietto singolare. Egli amava, dopo
cena, starsene seduto sull'uscio della sua bicocca a osservare l’andirivieni,
consuetudine che ancor più apprezzava nei giorni di festa. Non mi crederà, ma
da noi c’è gente che si reca qui solo in occasione dei festeggiamenti in onore
del santo patrono. Ha mai assistito a certe solennità? Sono fuori dal tempo,
sempre uguali, leggende che sopravvivono solo per la folla, invasioni d’altri
secoli, tappezzate di manifesti lunghi tre metri che descrivono imperterriti le
stesse cose dell’anno precedente, ma, i cittadini, di nuovo con la testa
all'insù, li rileggono incuriositi come la prima volta, se c’è mai stata. La
banda musicale marcia per le strade, tuonano all’alba ventuno colpi fantasma,
le campane annunciano la reiterazione, brulicano le bancarelle dei ragazzi di
colore con i loro denti nivei, sicuramente perché poco adoperati; si attende,
trepidanti, il rito della vigilessa Pina che sbraita per le concessioni degli
spazi per le bancarelle, gli stranieri studiano, attoniti, il folklore misto al
sudore e alla fame, gli immigrati sdraiati nelle loro tende da campeggio. È
inguardabile la loro tristezza, mi creda, della loro terra lontana, della loro
madre abbandonata. Inizia la sagra del mare e le vecchiette commosse
ringraziano Dio perché ha concesso loro un altro anno per ritrovarsi in
ginocchio dinanzi al Santo, mentre i vecchietti, seduti sul muretto,
brandiscono la tesa; la processione passa sommessa, l'odore dell'incenso
ghermisce il mio passato, trascinandomi nelle domeniche mattine di mia madre
che mi obbligava a recarmi in chiesa per la messa; i fuochi d’artificio
irrompono e gli applausi scrosciano. Come le dicevo, diversi uomini
accompagnano le loro mogli a spasso, soltanto in queste occasioni e, per non
camminare troppo, si fermano a quelle bancarelle dove, solerti, gli imbonitori
dimostrano come si deterga perfettamente il pavimento o si mondino
geometricamente le patate. Restano immobili come innamorati, con gli occhi
sgranati per tutto lo sproloquio dell'avvincente promotore e, quando egli
termina, il marito, suadente, come se stesse per dichiarare il suo eterno
amore, la voce serafica e un braccio preservatore che cinge la spalla,
bisbiglia: «Amore lo vuoi?». I giovincelli, invece, per nulla allettati,
passano irriverenti, con un'insolenza che esprime il loro rispetto congenito,
la loro devozione sospesa e una bevanda alcolica tra le mani. Perdoni le mie
irrinunciabili digressioni. Per quel vecchietto sulle scale sotto palazzo
Palumbo, le raccontavo, luglio e agosto erano mesi pieni di vita e di colori,
mesi che agognava trepidamente in quelli foschi e freddi d'inverno, sebbene si
avvedesse che quest’ansia accelerasse la sua vita. Egli, un po' per la sua saggezza,
ma soprattutto perché a cena non disdegnava quei due o tre bicchieri di vino,
quello del suo compare contadino, che tinge il bicchiere di sentori violacei,
dopo pochi minuti si addormentava sulla sedia intonando sonanti russate. Era
anche sordo, più di me, infatti, neanche i fuochi d'artificio riuscivano a
destarlo, tranne l'ultimo colpo, quello che chiudeva lo spettacolo pirotecnico
e ogni volta, ogni anno, si svegliava di soprassalto ed esclamava: «Sono
cominciati i fuochi – poi, perplesso perché non vi era seguito a quello che per
lui era il primo colpo, prima di rimettersi a dormire disapprovava – questo è
tutto? I soldi che ho donato per la festa? Li hanno intascati quei farabutti
dei confratelli, l’anno prossimo non elargirò un solo centesimo». Così accadeva
tutti gli anni.
Eppure mio padre, che aveva i suoi grattacapi, un
lavoro non gradito, con un camice lungo fin sulle caviglie al posto di una Rolleiflex con cui aveva fotografato persino Milva alla
Lampara, una scommessa persa alla bazzica e una moglie cattolica praticante,
una cugina invadente a cui non avevano spiegato nulla del genotipo e
dell’eredità autosomica recessiva e a lui, del resto, poco interessava, ammaliato
dalla fulva chioma e dall’accento goffamente milanese; eppure mio padre, che
era come quelli che abitano in un sottano a piazza Teatro, quando ancora il
teatro c’era e, nonostante l’avessero già bombardato, lui era caduto prima del
monumento, mentre impavido tentava l’impresa di scavalcare il cancello del San
Ferdinando; aveva praticato quel foro nel muro, lì sotto l’arco, che ancora
sovrasta la movida sebbene nessuno lo sappia, glielo giuro è ancora lì,
osservi; eppure mio padre aveva acquistato una cameretta per bambini nuova,
d’occasione, per sostituire una mobilia da tempo adattata alle nostre esigue
esigenze, senza senso, che più di una volta aveva ceduto alle nostre
arrampicate per raggiungere i giochi dismessi, nostro malgrado e senza una
valida ragione; l’aveva acquistata a rate che sono durate un’eternità e mia
madre ancora le ricorda; eppure mio padre, che ora è morto e sepolto
nell’angolo di una cappella, all’esterno, all’aria aperta come desiderava,
perché così avrebbe potuto continuare a fumare senza che nessuno lo
importunasse, in un loculo di fortuna, perché non ci avevamo pensato
prudentemente prima, senza fiori, perché non mi salta in mente ora di offrirgli
dei fiori; solo una volta mi chiese cosa ne pensassi delle sue congetture
pressoché silenziose ed io, prontamente, non gli fornii spiegazioni, ma solo
perché, con un evidente imbarazzo, ancora le sto architettando; eppure mio
padre… la prego, caro amico di fortuna, mi faccia ancora compagnia, accenda un
San Cristobal de la Habana, mi faccia la cortesia, le offro del Guayabita del Pinar Seca, si
lasci trasportare dal crepuscolo che ancora lascia intravedere sfumature
pervinca e smeraldo, ma non mi chieda di proseguire. Quella cameretta per
bambini sprovveduti è ancora lì dov’era, scarnificata, vi gironzolano impuniti
i miei fantasmi e le schegge dei soprammobili riparati in fretta e furia, che
inspiegabilmente profuma di legno appena segato; e alla “Vittoria Grande”,
l’acqua torbida nei giorni della pesca tra le tane, ci attardò più del dovuto,
ora ne possiamo parlare da qui, questa veduta non attende altro, da “Il vecchio
e il mare”, tra le ragazze che profumano di nespole non ancora ammezzite, non
mi lasci proseguire, si limiti a compiacersene. Una persona che conosco vive di
un padre morto e questo padre è più vivo ora di prima che perisse. Un padre con
diverse mancanze, di quelli che un figlio avrebbe infinite ragioni per
detestarlo, ma uno psicologo avveduto, figlio di quel padre, troverebbe una
spiegazione plausibile a ogni sua incongruenza. Questa figlia, sebbene non
fosse addentrata, aveva partorito un padre nuovo, il giorno stesso in cui gli
era morto, e lui, dalla morte, poteva trarne il vantaggio del perdono, di non
doversi giustificare né pentire, bastava l’assenza ad assolvere quelle premure.
Andava sentendosi laudare benevolo, premuroso e
persino loquace. Tanto loquace che avevano cominciato a parlottare, cosa
piuttosto inconsueta, di tutte quelle faccende cui, per pudore, non avevano mai
fatto cenno. Il fatto sorprendente è che il dissenso era un atto d’amore e, nel
dissentire, entrambi avrebbero dispensato sguardi di comprensione. Era morto da
un pezzo, non si meravigli, nessuno se lo sarebbe aspettato, ma, di tanto in
tanto, in sogno, sparviero, riappariva con la pelle tesa, strafottente e un
borsello a tracolla, una pettinatura che gli concedeva il diritto di commettere
quegli errori imperdonabili, ma poi si riparava nella consuetudine di
dissolversi tra la rugiada e quelle erano lacrime d’interruzione, di parole
impronunciabili, ormai inveterate, così come i nostri passi che già non si
possono ritrovare. Di questo passo siamo giunti alla sua locanda.
Mi perdoni
per il ritardo, ho accompagnato mia madre dal medico; sebbene avessimo
opportunamente ritenuto di recarci all’ambulatorio fin dal dilucolo, vi erano
già diversi mutuati in coda. Le dirò, mia madre ha delle certezze
imperscrutabili che restano in silenzio e ti scrutano inflessibili, persino in
coda; invecchia senza che il tempo si possa fermare e mi chiedo cosa provi nel
constatare che i figli siano gravati da più anni di quelli che aveva lei quando
eravamo bambini. Stanotte mio figlio ha dormito con noi nel lettone; aveva la
testa sull’addome di mia moglie e i piedi sulla mia faccia; lei ha ragione, in
effetti io non mi sarei mai sognato di dormire con i piedi in faccia a mio
padre, di non alzarmi in piedi quando entrasse la maestra o di non porgere le
mani per le sue bacchettate; il prete m’incuteva timore come il carabiniere
che, ancora adesso, quando intima di fermarmi al posto di blocco, mi fa sentire
un farabutto titubante sebbene non lo sia; ma al diavolo i piedi in faccia a
mio padre, vorrei starmene sempre in questa posizione, sentirmi giustamente con
la coscienza a posto, non avere dubbi sul libretto nel cruscotto e non avere
avuto il terrore di non ricordare l’atto di dolore nel confessionale. Mia
madre, le dicevo, caro paziente amico, è certamente responsabile delle mie
paure e non solo lei, c’è qualcun altro parimenti responsabile; ma lei ha
dovuto, come la maggior parte delle mogli, sopportare le angherie di mio padre
che era un gran lavoratore e, tutt’oggi, non mancano i suoi colleghi pensionati
di ricordarmelo. Mia madre, tutto sommato, non ha colpe precise, come gli
assassini e i ladri che non sanno fare altro con la stessa abilità, non ha
colpe per le sue involontarie mancanze, peraltro ha dovuto lavorare in un
maglificio e, contemporaneamente, lavare pavimenti con prodotti adeguati e
spolverare mobili acquistati a rate; figlia di un uomo con un braccio amputato
in guerra e morto quando aveva dodici anni, sorella di altri cinque, senza
soldi per studiare; ora invece può starsene distesa sul divano a leggere libri,
e quanti ne legge, persino di filosofia; può recarsi a messa la domenica senza
sentirsi in colpa, sin dalla recita del rosario; fa scivolare con sicumera le
perle tra le dita, conosce a menadito i salmi e le preghiere, bisbiglia i canti
per pudore, ma sa anche della malvagità dei mariti che si aggirano pentiti
negli ambulacri, risparmiati dalle malattie che sopraggiungono dopo la
pensione, osserva circospetta le incongruenze delle loro mogli che ora
finalmente sono da questi accompagnati e si mostrano persino appagate durante
la spesa del sabato. Mia madre, nonostante i betabloccanti, s’inginocchia con
gran protervia durante l’elevazione, come se Dio, con la storia dell’artrosi,
non la impensierisse; è una delle poche cosa che finge di riuscire ancora a
fare; ha una certezza in più di me e si meriterebbe un figliuol prodigo che
profumasse d’incenso e avesse la sapienza di una lettera ai Tessalonicesi,
sembra non aspettarsi altro; ma mia madre lo sa, finché vivrà, nessuno potrà
convincerla del contrario e io non riuscirò a convincermi similmente.