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Rino Negrogno è nato il 7 luglio del 1968 a Trani, dove vive con la moglie Barbara, il figlio Luca e il cane Axel.
Ha conseguito la maturità scientifica presso il Liceo Valdemaro Vecchi di Trani dove è stato alunno dello scrittore
Mimì di Palo. Si è laureato in infermieristica all'università di Foggia, lavora nel servizio emergenza urgenza 118 dal 2004.
Svolge attività di volontariato nei centri di accoglienza e nella protezione civile. In passato si è impegnato nella politica
locale e nel sindacato. Ha curato le rubriche di diversi giornali telematici. Alcune sue poesie e racconti sono stati pubblicati
in diverse antologie. Nel 2016 ha pubblicato i suoi primi due libri: "Interludio" e "Controra", nel 2018 "Il miracolo",
nel 2019 "Codice Rosso", nel 2020 "Pandemos", nel 2021 "Il monatto", nel 2023 "Il mio Santissimo" e "L'inconsistenza dei giorni".
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LIBRI
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L'INCONSISTENZA DEI GIORNI (2023)
Il professor Camillo è perdutamente innamorato della baronessa Elvira degli Archi Cervi; un amore impossibile
poiché lui non è un aristocratico, ma in realtà questo è il problema minore, la baronessa è deceduta,
diciassettenne, ormai da centotrentatrè anni; incantato davanti alla fotografia apposta sulla sua lapide non
si avvede dell’orario e resta chiuso nel cimitero dove incontra un fantasma. Suo figlio Jonathan nasconde
un angosciante segreto; la relazione con sua moglie Virginia non funziona; Camillo decide di attraversare
una finestra spazio temporale per tornare nel passato e sistemare alcune faccende. Esiste un luogo a Trani,
sotto il Belvedere, procedendo da via Venezia in direzione del Lungomare Cristoforo Colombo, scendendo verso
la città, contando sei panchine, partendo dalla prima a semicerchio, è la sesta, ingrottata nello speco
più profondo, dove questa finestra si può attraversare.
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IL MIO SANTISSIMO (2023)
Questo libro non è in vendita, l’ho scritto per alcuni amici, parenti e per i
suoi protagonisti. L’ho comunque inserito nella mia bibliografia per affetto nei
confronti di Francesco Paolo Galasso, di Alfredo Cavalieri, dell’Arciconfraternita
dei Bianchi, sotto il titolo del Santissimo Sacramento di Trani, dei confratelli e
di tutti i miei amici legati a queste tradizioni.
Racconto la mia esperienza nel sodalizio che iniziò nel 1989 e durò fino al
2012 quando decisi di dimettermi. Racconto inoltre alcuni aneddoti, alcune
mie impressioni, alcune riflessioni, persino alcune leggende sui personaggi che
ho incontrato e qualche curiosità sulla tormentata processione dei Misteri che
si svolge il Sabato Santo, anzi no, il Venerdì Santo; per la verità quando fu
istituita si svolgeva il Venerdì santo, successivamente è stata spostata al Sabato
e poi di nuovo al Venerdì.
I miei racconti non sono precisissimi e possono persino essere errati
nella collocazione storica o nei riferimenti a determinate persone anziché altre
poiché per la maggior parte mi baso sui soli ricordi e non su fonti scritte,
e purtroppo la memoria comincia ad abbandonarmi.
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IL MONATTO (2021)
Da più di un anno sono in prima linea contro un nemico invisibile, il Covid, e durante questo anno di pandemia
che ha terremotato il nostro mondo, mi sono posto tante domande, domande che sono diventate lo spunto per il
racconto, ma soprattutto una domanda ha turbato costantemente il mio animo: “Quanto e come ci sta cambiando
questa tragedia? In questo libro racconto la paura che provano i pazienti di fronte ai primi sintomi relativi
al Covid, la paura di contagiare i propri famigliari, la paura che si venga a sapere, la loro fame d’aria, lo
stupore della gente nel vederci bardati le prime volte, ma anche la paura di contagiarsi che hanno gli
operatori sanitari. Infatti, da quando è cominciata questa pandemia, sta accadendo un fatto nuovo: per la
prima volta i sanitari mentre sono accanto al paziente sono più impensieriti, più impauriti di lui, poiché
hanno paura di contagiarsi e contagiare le loro famiglie. Scrive l'editore nella prefazione: "Con le sue
microstorie vere, tutte raccontate “in soggettiva”, per usare una metafora cinematografica, Rino Negrogno
esegue in maniera efficace il compito che l’umanità da sempre assegna alla narrazione di sé e del proprio
mondo di dentro e di fuori: tenere insieme le storie piccole degli umani con la storia grande dell’umanità".
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PANDEMOS (2020)
Sono solo pensieri sparsi, senza una ragione né un motivo. Scritti tra il 2018 e il 2020, tra naufragi e
pandemia, violenza sulle donne e uccisioni di bambini. Due anni difficili per il mondo, e invecchiare in
queste circostanze è davvero molto faticoso. In realtà un motivo per scrivere c’è ed è Pandemos. Pandemos
è un libro di poesie. Alcuni di questi pensieri li ho elaborati mentre mi ritrovavo a venti centimetri da
un paziente COVID positivo per incannulare una vena o per misurare la sua pressione arteriosa, per tentare
di rianimarlo con il massaggio cardiaco e la ventilazione artificiale, chiusi in ambulanza, in uno spazio
di un metro per due, bardato con una tuta bianca, una mascherina e una visiera. Ma non tutti i pensieri
tornano da questo periodo. Buona lettura.
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CODICE ROSSO (2019)
Codice rosso non è un testo tecnico, non è una disamina sui protocolli operativi per gli operatori del 118,
è un libro sulle emozioni, sulle sensazioni che provano i pazienti, i loro parenti e gli operatori del
soccorso. Per me la scrittura ha anche una funzione terapeutica, scrivo per esorcizzare la sofferenza con
cui sono quotidianamente a contatto, per liberarmi dalla frustrazione che provo di fronte alle innumerevoli
situazioni drammatiche che affronto e devo gestire ogni giorno a causa del mio lavoro. In Codice rosso
descrivo infatti proprio le sensazioni di chi, improvvisamente, si ritrova in bilico tra la vita e la morte
per un incidente stradale, per un infarto o anche per una diagnosi infausta di grave malattia. Descrivo il
terrore che assale il paziente, lo sgomento dei suoi parenti, ma anche l’ansia degli operatori del 118 che
intervengono in suo soccorso. Racconto le loro reazioni, le loro paure, le reazioni e le paure degli operatori
del 118 che con grande passione tentano tutto il possibile per salvarli da una morte quasi certa, a volte
con successo, altre volte no. Codice rosso non è un libro triste, è un libro sul coraggio, il coraggio che
tira fuori, spesso inaspettatamente, chi è in pericolo di vita, e il coraggio che invece deve necessariamente
avere chi ce la mette tutta per tentare di salvarlo. “Se esiste un confine tra la propria professione,
il proprio mondo privato e interiore – scrive l’editore in quarta copertina – e la passione che si può provare
per l’umanità intera, questo confine Rino Negrogno lo conosce bene e si muove intorno ad esso con grande
competenza. La stessa competenza che gli consente di essere narratore di sé”.
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IL MIRACOLO (2018)
Matteo è alle prese con la difficile gestione del divorzio con Francesca ed è tormentato dai sensi di colpa
derivanti dal rapporto intermittente con suo figlio Mattia. Sente la nostalgia della quotidianità perduta, le
lotte sul lettone con il figlio, che erano un pretesto per abbracciarlo. È tormentato da ossessive reminiscenze
provenienti dal passato che a volte si trasformano in vere e proprie visioni; si ritrova a pensare a quando era
bambino, ai suoi genitori che non si sono mai separati, ma soltanto per un atavico senso del dovere; non vi era
amore tra suo padre e sua madre, sono rimasti insieme soltanto per rispettare le regole e per il timore di
essere giudicati. Si chiede cosa sia più giusto, per non far soffrire i figli, tra una separazione e un rapporto
tenuto in piedi senza amore. La sua quotidianità è scandita, oltre che dal suo lavoro, dagli appuntamenti con lo
psicanalista e l’avvocato, ma si reca a questi appuntamenti senza convinzione e ritiene che i professionisti
non possano aiutarlo; finisce per scorgere in loro, problemi ben più gravi, e ritiene quindi che non possano
risolvere i suoi. Resta contrariato quando l’avvocato gli mostra dei calcoli per ridurre l’assegno di
mantenimento per suo figlio, come anche quando lo psicanalista cerca di fargli recuperare la fiducia in sé
stesso. Anche diversi suoi amici sono separati e gli raccontano le loro storie, dove spesso i figli vengono
utilizzati per colpire l'ex coniuge, situazione che lui non accetta e non riesce a concepire. Altre volte sono
gli stessi figli a vendicarsi per i torti subiti dai genitori separati. Una di queste è Chiara, quattordicenne
che lo seduce soltanto per vendicarsi contro il genere maschile. La situazione precipita quando per caso scopre
di avere una malattia incurabile. Ateo, tra esami, prelievi ematici e radiografie, si rivolge inaspettatamente
al curato della parrocchia del suo quartiere, ma anche lui si rivela presto incapace di aiutarlo preso dai suoi
turbamenti e dai suoi dubbi. Infatti l’unico consiglio che riesce a dargli è quello di rivolgersi al santo
venerato nella parrocchia, San Ciro, protettore degli ammalati. Matteo pur titubante, ma disperato, si lascia
convincere e, accompagnato da don Peppino, chiede al santo di intercedere presso Dio per concedergli un
miracolo. Gli sarà concesso il miracolo?
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CONTRORA (2016)
Ho scritto la mia prima poesia nel 1978, per una manifestazione culturale organizzata dalla parrocchia San Giuseppe di Trani in
occasione della festa della mamma. Avevo 10 anni e, da allora, anche grazie all’incoraggiamento della mia maestra, non ho più
smesso. In questa raccolta ne ho selezionate 200, scritte tra il 1986 e il 2016, un periodo alquanto ampio, infatti è evidente
uno stile notevolmente disomogeneo tra i vari testi. Ho preferito inserirle a caso, senza seguire un ordine temporale e senza
raggrupparle per argomenti, come quando le scrivo, senza alcun criterio. Le mie poesie sono state pubblicate nell’opera
“Poesia moderna e contemporanea – Parnaso Europeo” edito nel 2010, nella raccolta “Viaggi di versi – Nuovi poeti contemporanei”
edita nel 2013, nell’antologia “Visioni poetiche” edita nel 2013. Nella prefazione di “Visioni poetiche” Plinio Perilli, sulla
poesia “Che pace” scrive: “Ogni intellettualismo è vinto, annullato in partenza, irriso come blando, sterile artificio come
costrutto”. La controra, dalle mie parti, è l’ora del riposo, della pennichella; è un periodo non ben definito, compreso,
all’incirca, tra mezzogiorno e le sedici; in estate è il periodo più caldo della giornata e la consuetudine impone di rifugiarsi
in casa al fresco per riposare. Per mia madre non è opportuno aggirarsi per le vie della città alla controra. Quando ero poco
più che adolescente, diceva che quella era l’ora degli “zannieri”. Non ho mai saputo chi fossero e non ho mai ascoltato mia madre.
Girovagavo sempre alla controra, le ore migliori, silenziose, mentre tutti reiterano la loro devozione alla pennichella,
tranne gli “zannieri” che devono essere silenziosi e riflessivi perché non mi pare di averne mai incontrato per strada o
sentito cincischiare. Presumibilmente si mimetizzavano tra quelli come me, erano miei compagni di piazza e, senz’altro,
io stesso ero uno “zanniere” per le madri dei miei imperterriti accompagnatori, ma preferivo, quando ero giovane, non riposare
perché ritenevo quel tempo impiegato così, tempo sprecato invano.
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INTERLUDIO (2016)
La storia si svolge a Trani, la mia città, e il pretesto mi ha permesso di descriverne alcuni luoghi caratteristici,
far annusare gli effluvi di alcune strade che sono “traverse di corso utilizzate per rivedere le processioni dall’inizio”;
ma il vero protagonista del romanzo è il tempo che trascorre inesorabile e ineluttabile. È la storia di un turista che,
all’uscita della stazione, chiede a un passante di indicargli la strada che conduce al centro storico di Trani, ma egli si
offre di accompagnarlo e, durante il tragitto, si avvale dell’inconsueta attenzione offertagli, per rivelare le sue angosce.
In realtà, il tranese, resosi subito conto dell’eccezionale disponibilità all’ascolto del viandante, qualità piuttosto rara
al giorno d’oggi, lo punta come una preda da non lasciarsi sfuggire e, infatti, inizia un soliloquio che si trasforma in una
cascata interminabile di parole. L’ oratore, per il lavoro che svolge, è spesso a contatto con i vecchi ad è costretto a
imbattersi in situazioni dolorose, di malattia, di sofferenza e di morte, ma anche di solitudine, ad esempio nella solitudine
dei vecchi abbandonati a loro stessi. È una persona empatica a tal punto che quotidianamente si domanda come possa essere in
grado di svolgere questo tipo di lavoro quasi sempre a contatto con la sofferenza. Comincia a ritenere che tutte quelle
situazioni che incontra potrebbero presto riguardarlo personalmente, ha la sensazione di essere anche lui prossimo alla
vecchiaia se non a una grave malattia. Cerca quindi di riflettere su quella condizione che fino a quel momento aveva
considerato estranea, osservandola sempre e soltanto come una faccenda che riguardasse solo i suoi pazienti. Si pone,
a un certo momento, un interrogativo, riflette su ciò che si prova nel trovarsi dall’altra parte, dalla loro parte.
Spesso, quando ci relazioniamo a un malato, al suo capezzale, a un vecchio, non consideriamo che si tratta di persone che
desiderano non essere malati, vecchi, soli e, come scrivo nel mio libro: “la loro mente è spesso sana, pulsa degli stessi
nostri desideri, i polmoni bramano l’aria luccicante dell’aurora, si ciberebbero dei baci delle badanti anziché dei loro
medicamenti”. Seneca, a tal proposito dice che: “la vecchiaia indica un'età stanca, ma non priva di forze”. Li releghiamo
alla loro condizione, come fossero esseri inanimati, condannati all’ineluttabilità della loro sorte senza considerare che
hanno gli stessi nostri desideri, i nostri stessi pensieri. Per Italo Svevo il distacco dalla vita è pagato con un senso
d’impotenza, quindi d’inettitudine e di malattia, cui è contrapposto il mito della volgare salute borghese. Essere malato,
come nel caso di Zeno, permette di assumere una prospettiva privilegiata dove l’ironia si unisce alla capacità di riflessione.
La riflessione più interessante la fa Nietzsche, dove il malato, in maniera tranquilla e terribile, può cogliere in pieno
la bellezza del mondo, perché ormai vive di attimi concessi e ogni attimo è autonomo, il tempo non scorre più per lui,
è finito. I malati, quindi, soprattutto quelli più gravi, quelli terminali, ci osservano da una posizione privilegiata,
dall’alto, da un distacco che deriva dall’essersi, loro malgrado, liberati dal dover realizzare nuovi, futili obiettivi.
È scorretto relazionarsi alla malattia o alla vecchiaia di una persona piuttosto che alla persona che abbia contratto quel
male o quella condizione di vecchiaia.
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