Rino Negrogno
Codice
rosso
Sinossi
“Codice rosso” non è un testo tecnico,
non è una disamina sui protocolli operativi per gli operatori del 118, è un
libro sulle emozioni, sulle sensazioni che provano i pazienti, i loro parenti e
gli operatori del soccorso. Per me la scrittura ha anche una funzione
terapeutica, scrivo per esorcizzare la sofferenza con cui sono quotidianamente
a contatto, per liberarmi dalla frustrazione che provo di fronte alle
innumerevoli situazioni drammatiche che affronto e devo gestire ogni giorno a
causa del mio lavoro. In “Codice rosso” descrivo infatti proprio le sensazioni
di chi, improvvisamente, si ritrova in bilico tra la vita e la morte per un
incidente stradale, per un infarto o anche per una diagnosi infausta di grave
malattia. Descrivo il terrore che assale il paziente, lo sgomento dei suoi
parenti, ma anche l’ansia degli operatori del 118 che intervengono in suo
soccorso. Racconto le loro reazioni, le loro paure, le reazioni e le paure
degli operatori del 118 che con grande passione tentano tutto il possibile per
salvarli da una morte quasi certa, qualche volta con successo, altre volte no.
“Codice rosso” non è un libro triste, è un libro sul coraggio, il coraggio che
tira fuori, a volte inaspettatamente, chi è in pericolo di vita, e il coraggio
che invece deve necessariamente avere chi ce la mette tutta per tentare di
salvarlo. “Se esiste un confine tra la propria professione, il proprio mondo
privato e interiore – scrive l’editore in quarta copertina – e la passione che
si può provare per l’umanità intera, questo confine Rino Negrogno lo conosce bene
e si muove intorno ad esso con grande competenza. La stessa competenza che gli
consente di essere narratore di sé”.
Recensioni
Alessandra Musicco – Studentessa
Questo libro è speciale.
Da appassionata lettrice e assidua
frequentatrice di caffè e incontri letterari, consiglio caldamente "CODICE
ROSSO" a chiunque abbia il coraggio di lasciarsi cambiare da una lettura
e, soprattutto, voglia innamorarsi. Ho sempre pensato che tutti coloro che,
anche una sola volta nella vita, entrano a contatto con la sofferenza di un
altro essere umano, rimangano, talvolta inconsciamente, profondamente segnati.
Sarebbe difficile generalizzare descrivendo il modo in cui ciò avviene, perché
è totalmente differente per ogni persona. Una cosa, però, è certa: dopo
un'esperienza di questo tipo tanti problemi irrilevanti, considerati di vitale
importanza, subiscono un ridimensionamento e, quasi sempre, si crea un nuovo
tipo di approccio umano, fatto d'amore, e non rancore, verso il prossimo. È
proprio sulla scia di quanto detto che mi complimento con Rino per essere
riuscito, attraverso le sue parole e il suo stile decisamente ipotattico ma
sorprendentemente di facile lettura, a descrivere e a rendere perfettamente la
tensione e le emozioni che deve aver vissuto nei momenti che racconta nel suo
libro. La bravura di uno scrittore si stima sempre in rapporto al
coinvolgimento del lettore, ma questo libro è speciale. Oltre che appassionare
ed incuriosire, riesce a regalare a chi legge una piccola parte della storia,
come se l'avesse vissuta realmente e, aggiungerei, lascia scoprire ai lettori
più attenti il vero carattere dello scrittore, senza filtri.
Raffaele Petrella – Autista soccorritore
Codice Rosso mi ha regalato la sensazione di essere ancora su
quella ambulanza di 118.
Mentre mi scriveva una dedica sul suo
libro dissi al mio amico Rino Negrogno che avrei letto il suo libro appena
fossi tornato nella città in cui lavoro lontano dalla distrazione di parenti e
amici. Confesso di aver sbagliato su tutta la linea. Innanzitutto non ho
resistito ed ho iniziato a leggerlo subito, e no, non sono riuscito a
concluderlo in un paio di sere come avevo pronosticato, ma adesso vi spiego il
perché. La scrittura è accessibilissima a tutti, eccezion fatta per taluni
termini tecnici, propri della professione sanitaria, che talvolta non vengono
spiegati, tuttavia credo che anche questa caratteristica abbia la positività di
spingere il lettore alla ricerca e conseguente ampliamento delle proprie
conoscenze. Mi vedo costretto, dopo averlo letto, a consigliarlo a chiunque sia
in qualche modo legato al mondo sanitario o del volontariato, ma in particolare
a chiunque abbia visto anche solo passare un'ambulanza a sirene spiegate in
modo da capire con cosa quegli uomini e donne hanno a che fare ogni giorno: Un
lavoro, una passione che li porta non solo a fronteggiare la paura, il dolore e
la morte, ma anche qualcosa di peggio ossia l'indifferenza, l'arroganza,
l'ignoranza e l'aggressività dei cittadini, che non sanno quanto anche un solo
minuto rubato a quegli operatori sia prezioso per chi ha bisogno di loro. L'autore
non ha solo scritto un libro, ha intrecciato vite, esperienze e storie,
arricchendole con i suoi pensieri personali riportandoli su carta come solo un
poeta contemporaneo potrebbe fare e imprimendo nell'animo del lettore messaggi
di un'umanità che va oltre la professione che egli esercita. Codice Rosso ha
racchiuso in meno di 150 pagine una carica empatica tale da costringerti a fare
lunghe pause dalla lettura per lasciar spazio alla riflessione più pura, a
degli esami di coscienza talmente profondi da scuoterti dentro, commuovervi e
talvolta cambiarti. Ho avuto il piacere di essere al fianco di Rino Negrogno
durante il tirocinio per diventare soccorritore e non credo di averlo mai
ringraziato per tutta la conoscenza che mi ha trasmesso e continuerò a
ringraziarlo adesso poiché grazie a Codice Rosso mi ha regalato la sensazione
di essere ancora su quella ambulanza di 118.
Giorgia Tolomeo - Studentessa
Ogni riga di questo libro ha
toccato le corde più profonde del mio cuore.
Ci sono racconti che somigliano alle
fiabe, come quelle che possiamo vivere a Disneyland e ci sono racconti che ci
mettono di fronte alla dura realtà quotidiana come quella raccontata da Rino
Negrogno in Codice Rosso. Ogni riga di questo libro ha
toccato le corde più profonde del mio cuore lasciando un segno forte,
importante. Forse è difficile affrontare questi temi alla mia età, più semplice
aggirarli o evitarli completamente, capire però che dietro un numero, dietro ad
uno squillo che arriva a quel 118 ci sono dei cuori che sobbalzano per
l’angoscia infinita di imbattersi in tragedie immani è fondamentale. Ogni
storia di questo “diario” di Rino mi ha emozionata, commossa, persino dilaniata;
storie crude per certi versi, che stringono il cuore e fanno sfumare ogni
speranza. “A casa di Francesca” è una di quelle che mi hanno tolto il fiato
«non vedo l’ora di andarmene da questa casa», scrive sopraffatto dalla
sofferenza Rino di fronte alla crudeltà della vita; o la dolcezza immensa nel
fare in modo che la moglie saluti per l’ultima volta l’uomo incastrato nelle
lamiere a causa di un incidente; o il suo chiedersi sempre «cosa direi io» al
posto dell’anziano che deve comunicare alla figlia che la mamma, sua moglie, è
morta; o chiedersi «se fossi io quest’uomo?» mentre inizia a praticare il
massaggio cardiaco ad un ragazzo già morto pensando a come comunicarlo al
povero padre.... «Il cuore degli ammalati – scrive Rino - palpita come i tamburi
della pioggia, è un fremito senza tregua, è cacciatore di risvegli pervasi di
sorpresa e gratitudine. Il battito fugge dallo stetoscopio alle mie orecchie e
lo carezzo sul polso sebbene a volte vi giunga sfinito, flebile come un refolo
d’autunno. Ascoltare il cuore degli ammalati mentre sfama il loro desiderio di
vivere ancora un giorno soprattutto per non rattristare invano i loro cari, è
un onore incomparabile. Potrei essere invidiato per questo e non ne sarei
sorpreso». E, infatti, io ti invidio caro, dolcissimo, eroe silenzioso.
Letture
L’arresto
cardiaco
«È un Codice Rosso, di cosa si tratterà? Spero non si tratti di
un incidente stradale, spero non siano convolti dei bambini». Ogni volta mi
passano velocemente per la testa questi pensieri e il cuore palpita fino a
quando l’infermiere della Centrale Operativa non mi spiega di cosa si tratta e,
tuttavia, spesso il cuore continua a salire in gola anche dopo la spiegazione.
«Uomo di cinquant’anni privo di coscienza – riferisce il collega della centrale
– non risponde, non respira, è probabile che si tratti di arresto cardiaco; i
parenti non hanno saputo spiegarci di più, erano comprensibilmente agitati,
urlavano, erano disperati». Corriamo verso l’ambulanza, Nicola, l’autista,
mette in moto, accende i lampeggianti e la sirena, si parte in fretta.
Controllo che sia tutto a posto, ho già controllato all’inizio
del turno, ma ora che sto andando a soccorrere un uomo in probabile arresto
cardiaco, mi assalgono i dubbi: il defibrillatore, le placche, l’Adrenalina, il
pallone AMBU. È ovviamente tutto al suo posto e funzionante. «Perché
rallentiamo? Perché l’autista dell’ambulanza suona anche il clacson oltre alla
sirena?» penso mentre mi affaccio al finestrino laterale, c’è il solito
automobilista che non si sposta, ci intima persino, agitando le braccia, di
stare calmi. Come si fa a restare calmo quando sei consapevole che per ogni
minuto che passa, le possibilità di salvare una persona in arresto cardiaco,
diminuiscono drasticamente? Nulla da fare, mostra il suo ghigno ma non si
sposta; finalmente Nicola riesce a sorpassarlo e l’automobilista ci manda a
quel paese. Non dovrei pensarlo, ma lo penso, immagino che il signore in
arresto potrebbe essere suo padre. Arrivati, qualcuno ci aspetta sulla soglia
del portone già in lacrime, questa circostanza non promette nulla di buono.
«Quarto piano» ci dice piangendo e ci fa strada. Corriamo, facciamo le scale
tre alla volta anche se siamo carichi di zaini colmi di farmaci e presìdi.
Entriamo nell’abitazione, un uomo è disteso esanime sul pavimento, non
risponde, non respira; mi avvicino, poggio le mie dita sulla carotide, non ha
polso, «È in arresto!» esclamo incautamente rivolgendomi ai colleghi. «Cosa
vuol dire in arresto?» urla una donna dietro di me, probabilmente si tratta di
sua moglie.
Non possiamo spiegarle cosa vuol dire “in arresto”, sebbene dal
suo volto pare abbia compreso abbastanza bene la gravità della situazione,
anche perché un vicino di casa ha già cominciato a praticare un rudimentale, ma
efficace massaggio cardiaco. Ognuno di noi sa quel che deve fare, non abbiamo
bisogno di parlarci, in questi momenti non è necessario dare disposizioni.
Elena, il medico, comincia a ventilare il paziente, Nicola comincia a praticare
il massaggio cardiaco, Francesca, la soccorritrice, posiziona le placche del
defibrillatore, mentre io mi accingo a reperire un accesso venoso per infondere
al più presto farmaci salvavita. Sul monitor la linea piatta conferma il nostro
sospetto, asistolia, arresto cardiaco. «Uno, due, tre, quattro – scandisce
Nicola mentre massaggia – ventotto, ventinove trenta», «Uno, due», conta le
ventilazioni effettuate con il pallone AMBU, Elena. «Spero di reperire
immediatamente la vena – penso – non è facile in un soggetto in arresto
cardiaco – ma ecco che il sangue defluisce nell’ago cannula – Presa!». Inietto
la prima fiala di Adrenalina, intanto finisce il primo ciclo rianimatorio, è
ancora in asistolia, comincia il secondo ciclo, il sudore del soccorritore
gocciola sul petto del paziente, dopo tre minuti inietto la seconda fiala di
Adrenalina.
I parenti ci guardano preoccupati, ma sembrano convinti che
riusciremo a riportare in vita il loro congiunto. «Non soffriva di nulla» dice
tra sé e sé la moglie, con le mani giunte, mentre le lacrime rigano il suo
volto, il volto di una mattina come tante altre, chi l’avrebbe mai detto; la
guardo e per un istante guardo sul comò, le foto del battesimo e della
comunione, «Non può morire» penso. Finisce il secondo ciclo, intubo il
paziente. «Ci diamo il cambio?», ma mentre stiamo per alternarci al massaggio
cardiaco, la linea del monitor non è più piatta, è frastagliata, non è più in
asistolia, è in fibrillazione ventricolare, un ritmo comunque inefficace, ma è
uno dei due unici ritmi che si possono correggere con la defibrillazione,
insieme alla tachicardia ventricolare senza polso.
«Allontanatevi dal paziente!» esclama Nicola e preme il tasto
del defibrillatore per effettuare la scarica elettrica. Il paziente salta,
solleva le braccia; osservo la moglie perché immagino che per lei sia
devastante osservare suo marito, privo di coscienza, con un cuore che non
batte, mentre salta e solleva le braccia. «Ora penserà che il movimento delle
braccia sia stato volontario – penso – dannazione è di nuovo in asistolia,
presto – esclamo – bisogna massaggiare!». Dopo la scarica elettrica è tornato
in asistolia, Francesca riprende con le compressioni toraciche, io con la
ventilazione. Finisce il terzo ciclo ed è di nuovo in fibrillazione
ventricolare, «Allontanatevi – avverte Elena – scarico!» e preme il tasto per
erogare la scarica. «Francesca riprendi il massaggio! No, fermatevi, fermatevi,
respira – avvicino le dita al collo per apprezzare la carotide – ha polso!»,
esclamo come se fosse un fatto personale e guardo di nuovo le foto, c’è anche
quella del matrimonio, sembra casa mia. Ha polso, respira, pressione arteriosa
120/80, saturazione di ossigeno 99, frequenza cardiaca 80. I parametri vitali
sono ottimali. Il cuore batte c’è il polso. Corriamo in ospedale. Ce l’abbiamo
fatta. Ce l’abbiamo fatta. Ce l’abbiamo fatta!
Ultimamente succede troppo spesso di soccorrere persone in
arresto cardiaco e troppo spesso si tratta di persone sotto i cinquant’anni. Il
defibrillatore, il massaggio cardiaco, la ventilazione, l’Adrenalina in vena e
la nostra esperienza ci permettono quasi sempre di ripristinare il battito
cardiaco e di riportare i parametri vitali a livelli normali: pressione
arteriosa 120/80, saturazione di ossigeno 99 e frequenza cardiaca 80, com’è
accaduto per questo paziente. Spesso però i farmaci e le manovre rianimatorie non
bastano per salvare il malcapitato perché dopo pochissimi minuti di anossia
cerebrale, di assenza di ossigeno al livello cerebrale, si instaura un danno
irreversibile, per cui anche ripristinando il circolo, il cervello è ormai
danneggiato. La maggior parte delle volte che riusciamo a salvare un paziente
in arresto cardiocircolatorio, a riportarlo in vita, quando giungiamo sul
posto, c’è qualcuno che gli sta già praticando il massaggio cardiaco.
Praticando il massaggio cardiaco prima del nostro arrivo, si garantisce una
sufficiente ossigenazione del cervello e si evita la morte delle cellule
cerebrali. I corsi per apprendere le manovre rianimatorie sono organizzati
spesso da varie associazioni, costano pochissimo e possono accedervi tutti,
anche chi non è un sanitario. Se tutti apprendessimo queste manovre: il
massaggio cardiaco, la disostruzione delle vie aeree e la ventilazione
artificiale, noi del 118 salveremmo più vite. È importante per noi stessi e per
i nostri cari.
Il
suicidio
«Codice Rosso, un ragazzo di ventisei anni è stato trovato da
suo padre, impiccato – riferisce con una voce rassegnata l’infermiera di
centrale – andate a vedere». Intervenire per un suicidio è una tra le
situazioni più dolorose e più stressanti per noi. È un’aria irrespirabile
quella che si inspira dove un uomo ha tentato o si è tolto la vita: il suo
corpo esanime tra i parenti increduli e sgomenti, mentre cercano invano di
comprendere le ragioni che hanno spinto il loro caro a compiere un gesto così
drammatico, rende l’aria pregna di un dolore e un turbamento incoercibili.
Giungiamo sul posto, il padre ha tagliato la corda che era
stretta intorno al collo del ragazzo e gli pratica un disperato massaggio
cardiaco; osservo il ragazzo, deduco immediatamente che è deceduto da diverse
ore; con Elena, il medico, scambio uno sguardo disperato, «Come si fa a
spiegare a un padre che pratica il massaggio cardiaco al proprio figlio morto –
sussurra Elena – che quell’operazione è ormai inutile perché è passato troppo
tempo da quando il suo cuore si è fermato?», scuoto la testa senza rispondere,
mi inginocchio accanto al padre, «Presto, fate qualcosa!», strepita lui
facendomi posto, applico le placche del monitor defibrillatore, come mi
aspettavo, la linea è piatta, ma non me la sento, come anche Elena, non ho il
coraggio di dire al padre che non c’è più nulla da fare.
«Se fossi io quest’uomo? – penso mentre inizio a praticare il
massaggio cardiaco – se fosse mio figlio questo ragazzo?»; Elena comincia a
ventilarlo, intanto ci guardiamo; il padre, esonerato dal dover fare qualcosa
per suo figlio, ormai ci siamo noi, inizia a piangere disperato, evidentemente
comincia a rendersi conto della situazione o, probabilmente, se n’era reso
conto già prima, ma non poteva starsene con le mani in mano; Elena ed io continuiamo
a tentare una pleonastica rianimazione mentre siamo consapevoli dell’inutilità
di farlo, ogni tanto alziamo lo sguardo, osserviamo il padre, ci guardiamo per
un istante e poi torniamo a posare i nostri occhi sul ragazzo.
Proseguiamo per quindici interminabili minuti, «Elena –
bisbiglio con una voce quasi assente – non possiamo continuare all’infinito – e
riprendo a massaggiare, come se non avessi detto nulla – bisognerà spiegare al
padre che è passato troppo tempo e che il cuore non ripartirà mai», Elena
annuisce, ma anche lei continua a ventilare, come se non avessi parlato. Non è
la prima e non sarà neanche l’ultima volta che ci troviamo in una situazione
difficile come questa, ma per noi è sempre come se fosse la prima volta. Quando
troviamo il coraggio di interrompere i tentativi di rianimarlo e comunichiamo
al padre che il figlio è ormai deceduto e non c’è più nulla che si possa fare
per salvarlo, il padre urla: «No!», e si lancia sul figlio, prima lo abbraccia
sollevando il busto del ragazzo da terra, con le braccia che cadono indietro,
mi fa venire in mente “La pietà”, il Cristo morto tra le braccia di sua Madre,
poi ricomincia a praticare il massaggio cardiaco, chiamandolo per nome.
Sono ancora in ginocchio, non ho la forza per rialzarmi, sono
esausto, osservo il padre mentre si accanisce sul figlio, poggio una mano sulla
sua spalla e questa si muove all’unisono con le compressioni che l’uomo
effettua sul torace del figlio, non si accorge nemmeno della mia mano, della
carezza che scivola sulla sua disperazione.
Il
contadino
Termina il turno di notte. Non è piacevole lavorare la domenica
notte, quando torno a casa è già lunedì. Osservo i viandanti ferrigni di giorni
feriali cui farei volentieri a meno, soprattutto dopo aver trascorso il giorno
festivo al lavoro. I contadini si dirigono, imbacuccati sui trattori, verso la
periferia. Come non invidiare la loro lentezza mentre sincronizzano i respiri
al terriccio fragrante e alle loro flemmatiche previsioni stagionali che non
tardano mai a rivelarsi come persuasi si aspettano?
Non mi sono sempre occupato di emergenza, ho lavorato in diversi
reparti e tra questi, per un breve periodo, anche in oncologia, ma sono andato
via dopo pochissimo tempo. Ci vuole troppo coraggio per sopportare la vita e la
morte che si aggirano, mano nella mano, in quelle stanze sterili; la sofferenza
è la stessa, ma vi è una differenza che ritengo rilevante. Quando muore un uomo
che soccorri per un incidente stradale o per un malore improvviso, il più delle
volte non lo conosci, soffri molto comunque, ma quando invece ti affezioni,
perché è stato ricoverato per mesi nel tuo reparto, lo hai visto cambiare, gli
hai parlato ogni giorno, è più di una sofferenza, è estenuante.
Lavoravo in oncologia quando un giorno arrivò in reparto Pietro,
un contadino di sessantacinque anni, cui avevano diagnosticato un tumore in
stato avanzato. Dopo l’intervento chirurgico non gli avevano dato molte
speranze, gli avevano detto che avrebbe vissuto al massimo altri due o tre mesi
e gli avevano consigliato di recarsi da noi per tentare con un ciclo di
chemioterapia. Arrivò accompagnato dalla moglie e dai figli, sembrava che lo
avessero portato con la forza, era altero, le rughe del volto erano quelle dei
muriccioli disseminati tra i terreni e, i capelli arruffati, se varcavano il
confine, erano del vento. La prima cosa che disse stizzito, nella sua lingua,
quando entrò nella stanza del medico che doveva visitarlo, fu: «Non ho mai
visto medici in tutta la mia vita, ora li sto vedendo tutti assieme e non mi fa
piacere». Aveva compreso la sua grave situazione, ma non era spaventato, un po’
preoccupato, tra una grinza e l’altra, un dente e un sorriso in meno,
un’espressione da buon padre di famiglia. Non era la morte a spaventarlo ma gli
aghi, le siringhe e il sangue, sapeva che la vita è come la sua terra, si
semina, si nasce, si raccoglie e si muore.
La moglie di Pietro era una donna di chiesa, di quelle che sanno
dividere i silenzi e trarre opportune conclusioni; a lei non avevano detto
tutto, le avevano spiegato che si trattava di cose serie, ma nulla che
lasciasse presagire morte imminente o fatti del genere; lei però aveva intuito
e pregava la Madonna affinché intercedesse presso Dio per far guarire la sua
montagna invalicabile.
Pietro invece era un contadino, Dio probabilmente esisteva, ma a
lui importava poco, lui viveva di lune e di tramonti, di giorni per piantare e
giorni per raccogliere, di pioggia e di vento, sere di formaggio e vino fatti
in casa, notti sfinite, troppo brevi per riposare. Erano i giorni della semina
e del raccolto, il suo Dio, anzi la vita vissuta giorno per giorno, perché è sempre
così, si raccoglie ciò che si semina. Quando gli infilavo l’ago in vena per
somministrargli la chemioterapia, Pietro urlava e poi sveniva, come se qualcuno
lo stesse accoltellando, ma dopo si riprendeva e tornava ad avere il suo
distacco quotidiano dalle cose, un distacco amorevole; Pietro odorava di terra,
lo ricordo bene. A volte gli accadeva di trovarsi, per la somministrazione
della chemio, nella stessa stanza con una donna molto ricca, colta e raffinata,
era anche bella, tanto che l’eleganza sembrava aggraziare persino i segni
disumani e feroci di quella morte imminente che i due si portavano sulla testa
come una corona e, quei segni, si potevano toccare. Pietro la osservava e poi,
per schernirla, diceva che il suo orto si trovava accanto al camposanto e,
mentre zappava, vedeva passare i funerali di tutti, ricchi e poveri e lui, per
ossequio, smetteva per un attimo di vangare e si scopriva il capo. La donna non
ci faceva più caso, si voltava dall’altra parte, verso la finestra prospiciente
la campagna incolta, aveva pietà per quella convivenza forzata e beffarda.
Pietro sopravvisse due anni anziché due mesi come gli avevano
pronosticato e lui stesso ci spiegò la ragione di quell’inattesa sopravvivenza.
Quando veniva da noi per la somministrazione della chemioterapia diceva:
«Dottore non posso morire adesso perché devo piantare le melanzane – un’altra
volta – dottore non posso morire ora perché devo riempire le bottiglie di salsa
– e ancora – oggi non posso morire perché devo piantare i pomodori». Un giorno
ci spiegò: «Devo insegnare queste faccende a mio figlio, poi potrò morire in
pace».
Questo suo impegno e questa sua preoccupazione gli permisero di
vivere altri due anni, non solo la chemioterapia, ma quel suo dovere di padre,
di contadino, di chi è abituato a lavorare con la terra che non tradisce e che
non bisogna tradire. Diceva: «La morte è amica mia, sa che deve aspettare». Un
giorno ebbe un lieve incidente con l’auto, proprio mentre il figlio lo
accompagnava per la somministrazione della chemio, nulla di grave, ma lui si
sentì in colpa nei confronti del figlio e qualche giorno dopo morì. Pietro era
un contadino e, con le sue certezze matematiche che gli venivano dalla terra,
di vita vissuta giorno per giorno, ci insegnò che oltre alla medicina, oltre
alla terapia, possiamo avere un buon motivo per vivere o per sopravvivere. Dopo
qualche giorno, andai via da quel reparto.
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Audiolettura – Codice rosso - Il paziente sbagliato
Il
paziente sbagliato
«Codice Rosso, una donna in probabile stato di shock
anafilattico, con eritema al volto, al torace e difficoltà respiratoria –
riferisce l’infermiere di centrale – andate ad accertarvi». Ci dirigiamo
velocemente all’indirizzo che ci ha indicato il collega; giunti sul posto, il
portone è aperto, ma mentre mi accingo a citofonare al cognome indicato dal
collega, una donna sulla rampa delle scale urla: «È mia madre, correte!», non
suono il campanello, con zaini, bombola d’ossigeno e defibrillatore, seguiamo la
signora facendo le scale tre alla volta, si tratta di un palazzo antico e le
scale sono più alte del normale. Arriviamo al primo piano già stremati, «Mia
madre abita al secondo piano – strepita la signora – dovete continuare a
salire!», continuiamo a salire, con un filo di voce rimasta, le chiedo:
«Signora, cosa è accaduto a sua madre?», «Non lo so – risponde – non ero in
casa con lei, io abito al terzo piano», «Che strana coincidenza – penso – si è
trovata per caso sul pianerottolo e ha intuito che la madre non stesse bene».
Finalmente arriviamo al secondo piano, la signora che ci ha
fatto strada apre la porta e ci indica la direzione per la camera da letto,
sono le sette e lei presume che sua madre si trovi lì, corro nella direzione
suggerita; ha ragione lei, l’anziana madre è distesa esanime sul letto, la
scopro velocemente, le sollevo la camicia da notte, «Presto, porgimi le placche
del defibrillatore», chiedo concitatamente e con l’affanno; Angelo, il
soccorritore, me le porge in fretta. A un tratto un urlo terrificante frena la
nostra ansia di salvare la malcapitata, l’anziana signora apre gli occhi e
ricoprendosi il petto, urla: «Aiuto, aiuto!», «Signora, stia tranquilla –
balbetto – siamo qui per aiutarla», «Mamma, mamma!» mi fa da eco la figlia perplessa,
non meno di quanto lo sia io, «Cosa volete da me – continua a urlare la signora
distesa sul letto – chi siete? Andate via!». Improvvisamente un atroce dubbio
mi assale, la signora sta bene, la figlia ci ha portati qui, solo sulla base di
una sua inverosimile supposizione, non so nemmeno il suo nome, «Signora, qual è
il suo nome?», chiedo titubante, «Maria Rossi» risponde la figlia, «Ma io
cercavo Valentina Bianchi» biascico osservando i volti terrorizzati dei miei
colleghi, avevamo perso già una decina di minuti e considerando che trattavasi
di un Codice Rosso, erano tanti.
«La signora Bianchi abita al primo piano» dice sospirando
candidamente la figlia dell’anziana signora, che nel frattempo ascolta
sbigottita il dialogo surreale. Ci guardiamo ancora una volta, senza parlare,
scattiamo in piedi e corriamo verso la porta, la signora anziana lancia un
ultimo grido di spavento, scendiamo velocemente le scale, fortunatamente sulla
porta c’è la targhetta con il nome, Valentina Bianchi, suono il campanello, ci
apre una bellissima donna di trent’anni, in vestaglia, «Buongiorno – taglio
corto io – dov’è lo shock anafilattico?», «Seguitemi» risponde lei con estrema
calma, si volta e si dirige verso la camera da letto, il letto è vuoto, non
vedo il paziente nelle gravi condizioni che mi sarei aspettato, si siede, apre
la vestaglia, scopre il seno, «Stamattina mi sono svegliata e avevo tutti
questi puntini sul seno» ci spiega guardandosi e indicando un lieve
arrossamento all’altezza dello sterno, mi inginocchio al suo cospetto, guardo
per un attimo di sottecchi i miei colleghi, anche loro sgomenti, mi volto di
nuovo verso di lei e porgendo il cellulare al soccorritore, senza guardarlo,
sussurro: «Avvisa la Centrale Operativa, siamo sul posto giusto», il soccorritore
afferra il cellulare, senza guardarlo, «Vediamo – rivolgendomi alla donna –
vediamo – respiro affannoso – vediamoli questi puntini».
Un uomo incastrato tra le
lamiere
«Codice
Rosso – riferisce l’operatrice della Centrale Operativa – incidente stradale,
ci sono due auto coinvolte, in una delle due c’è un uomo gravemente ferito e
incastrato tra le lamiere della sua auto distrutta. Oltre a voi ho allertato i
Vigili del Fuoco e la Polizia di Stato». Partiamo. Giunti sul posto ci rendiamo
subito conto che i feriti da soccorrere sono due, quello incastrato tra le
lamiere è più grave, l’altro ha solo delle escoriazioni e un trauma al
ginocchio. Ci dividiamo, Claudio, l’autista, resta con il ferito più lieve e
comincia a medicare le sue ferite in attesa dell’arrivo di un’altra ambulanza,
mentre il medico, il soccorritore e io ci occupiamo di quello più grave.
Si
lamenta, sanguina dal capo, dallo zigomo destro, dal naso e dalla bocca, ma è
cosciente; riferisce di avere dolore all’addome e alla gamba destra. Mi sporgo
dentro l’abitacolo, in effetti l’arto inferiore destro ha assunto una posizione
anomala che fa dedurre una frattura del femore ed è, per di più, pressato dalle
lamiere contorte. I Vigili del Fuoco non sono ancora arrivati, ma non possiamo
attenderli senza far nulla, il respiro dell’uomo è affannoso, il polso flebile
e la frequenza cardiaca accelerata. Mi infilo nell’abitacolo dal finestrino
laterale posteriore, raggiungo il ferito, con le forbici Robin taglio la
giacca, il maglione e la camicia. «Graziano, passami lo sfigmomanometro», dico
al soccorritore che me lo porge immediatamente, lo avvolgo intorno al braccio
del ferito e comincio a gonfiare il manicotto, nel frattempo lo osservo, sembra
confuso, non mi piace. La sua pressione arteriosa è 70 la sistolica e 40 la
diastolica, valori troppo bassi, indicativi di uno stato di shock ipovolemico
da grave emorragia, non c’è tempo da perdere. «Graziano prepara una fisiologica
da 500 ml e un Emagel – chiedo al soccorritore che prontamente si adopera
mentre avvolgo il laccio emostatico intorno al braccio del ferito – mi
serviranno più aghi cannula di grosso calibro, almeno 18 o 16 Gauge, un verde e
un grigio, devo reperire due accessi venosi per infondere liquidi
velocemente».
Fortunatamente
riesco a reperire i due accessi venosi, intanto arrivano i Vigili del Fuoco che
cominciano a tagliare le lamiere dell’auto, sembra un’operazione molto
complessa, utilizzano vari strumenti, la situazione è sempre più drammatica, le
condizioni del ferito peggiorano. Finalmente i Vigili del Fuoco ci comunicano
di aver completato il loro lavoro, non ci sono più impedimenti, possiamo
estrarlo. Ci avviciniamo, posizioniamo la tavola spinale, avvolgiamo il torace
del ferito con il dispositivo di estricazione Ked; Roberto, il medico, si
posiziona alla testa con Claudio, io mi posiziono dalla parte opposta con
Graziano, ma quando stiamo per ruotare il paziente, ci rendiamo conto che la
gamba sinistra è ancora bloccata da una parte del motore che ha sfondato il
vano ed è entrato nell’abitacolo. Avvisiamo i Vigili del Fuoco che accertatisi
della situazione, riprendono a tagliare le parti della vettura sotto le gambe
del paziente.
«Questo
inconveniente non ci voleva – esclama preoccupato Roberto – le condizioni del
ferito sono ormai critiche». Sostituisco l’Emagel ormai terminato con un altro
flacone dello stesso farmaco. A un tratto sentiamo una donna urlare mentre si
fa spazio tra gli astanti ed è trattenuta dalle forze dell’ordine: «Lasciatemi
passare, voglio andare da mio marito!», è la moglie del signore incastrato tra
le lamiere che sbraita. Mi volto verso di lei, un poliziotto la trattiene e
cerca di calmarla, le dice: «Signora, stanno facendo tutto il possibile per
aiutare suo marito, non può passare, sarebbe d’intralcio al loro lavoro», ma la
signora non vuole sentire ragioni, cerca di divincolarsi, continua a
strepitare.
«Se
fossi io – penso mentre sostituisco la flebo – e se fosse mia moglie la persona
ferita e incastrata?». Ha ragione il poliziotto quando afferma che la signora,
se si avvicinasse all’auto, sarebbe d’intralcio, ma ho la drammatica sensazione
che l’uomo non si salverà, è in condizioni troppo gravi. «Con quale diritto non
le concediamo un minuto per salutare, forse per l’ultima volta, suo marito che
potrebbe non sopravvivere?», mi dico, anche perché, quasi certamente, se glielo
permettessimo, dopo si calmerebbe e ci lascerebbe continuare il nostro lavoro
tranquillamente. «Potete fermarvi solo per un minuto – chiedo sommessamente al
comandante dei Vigili del Fuoco – permettendo così alla moglie del signore di
avvicinarsi per salutarlo?», si guardano per un attimo tra di loro, poi il
comandante acconsente e si fermano. Mi avvicino al poliziotto e prendendolo
dolcemente per un braccio gli dico: «Lasci passare la signora, è giusto che
saluti suo marito», la prendo per mano e, convinto come sono che questa sia
l’ultima volta che si parleranno, la accompagno dall’uomo ormai quasi esamine.
Lei mi segue, si avvicina, scoppia a piangere, lo bacia sulle labbra e lui
risponde al bacio, gli chiede come sta e lui fa un cenno con il capo e gli
occhi per rassicurarla. «Signora, ora dobbiamo allontanarci – dico
interrompendo lo strazio – dobbiamo permettere ai Vigili del Fuoco di portare a
termine il loro lavoro», la signora annuisce, la prendo per mano e la
riaccompagno vicino al poliziotto, è un po’ più serena.
Anche
se i Vigili del Fuoco hanno liberato il ferito dalle lamiere permettendoci di trasportarlo
in ospedale, purtroppo non ce l’ha fatta, è morto il giorno dopo, aveva perduto
troppo sangue e aveva troppe lesioni interne. Provo un’immensa tristezza di
fronte al ricordo dei due che si baciano teneramente mentre lui è imprigionato
in un groviglio di lamiere, ma mi rasserena il pensiero di aver permesso che si
salutassero per l’ultima volta.